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28 April 2024
0 11 minuti 5 mesi
Netanyahu sta prolungando la guerra per salvare la missione della sua vita
ISRAELE. Il premier israeliano sa che quando il conflitto finirà inizierà il conto alla rovescia per il suo governo. Un’operazione militare senza fine gli permette invece di aggrapparsi al potere, ma risponde anche a un obiettivo ideologico più ampio: impedire la nascita di una entità statale palestinese

Il primo ministro Benyamin Netanyahu ci ha messo più di un mese per presentare al pubblico israeliano qualche tipo di exit strategy dalla guerra che Israele sta conducendo contro i palestinesi nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre. La guerra finirà, ha detto in una conferenza stampa l’11 novembre «dopo che Hamas sarà stata eliminata. Gaza sarà demilitarizzata e non sarà una minaccia per lo Stato di Israele. L’Idf continuerà a avere il controllo della sicurezza su Gaza per impedire il terrorismo».

E ha proseguito: «In qualsiasi posto dove non c’è controllo israeliano sulla sicurezza ritorna il terrorismo, mette radici e ci nuoce. Questo è stato provato anche in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr). Quindi in nessuna circostanza acconsentirò a rinunciare al controllo della sicurezza». Alla domanda sulla possibilità di un ritorno al governo dell’Autorità palestinese (Anp) al governo di Gaza, Netanyahu ha risposto: «Non ci sarà un’autorità civile che educa i suoi figli a odiare Israele o a uccidere israeliani. Non può esserci un’autorità che da soldi alle famiglie degli assassini. Non può esserci un’autorità il cui leader non ha ancora condannato il massacro. Bisognerà che ci sia qualcosa di diverso, ma in ogni caso con il nostro controllo della sicurezza».

Da questi commenti si possono dedurre alcune cose. La prima è che Netanyahu punta a una guerra molto lunga, forse perfino infinita. L’esercito israeliano potrebbe in effetti avanzare attraverso Gaza, facendo sfollare con la forza tutti i residenti dalle aree che conquista e distruggendo queste aree fino alle fondamenta.

Ma anche se l’esercito dovesse trasformare le città e i campi profughi del nord di Gaza in città fantasma, staremmo comunque parlando solo delle «città di sopra». Nessuno, forse a eccezione dei comandanti di Hamas, sa quanti combattenti palestinesi siano rimasti nei tunnel sotto la superficie; quanti di loro saranno ancora lì quando l’occupazione sarà completa; quanti si muoveranno attraverso i tunnel verso il sud della Striscia; e quanti si trovano già nella regione.

Stando a quel che riferisce Israele, la maggior parte degli ostaggi sequestrati il 7 ottobre attualmente si troverebbe nel sud della Striscia. Questo significa che, dopo che la popolazione del nord di Gaza sarà stata fatta sfollare completamente, ci saranno oltre due milioni di palestinesi concentrati in metà della Striscia, insieme alla maggior parte della potenza militare di Hamas, e forse alla maggior parte della sua leadership. In altre parole, completare la missione di «eliminare Hamas» e  smilitarizzare la Striscia come ha promesso Netanyahu, sarà un compito mastodontico.

E cosa farà Israele con i due milioni di palestinesi che allora si troveranno nel sud, ai quali sta già ordinando di evacuare da determinate aree? Il tentativo di spingerli verso la penisola del Sinai probabilmente deteriorerà notevolmente la relazione di Israele con l’Egitto, forse anche trascinando quest’ultimo nella guerra.

Replicare l’aggressione che Israele ha intrapreso nel nord della Striscia, probabilmente finirà con migliaia di morti al giorno, perché la densità della popolazione sarà doppia. L’attuale catastrofe umanitaria rischia di peggiorare vertiginosamente fino ad assumere proporzioni bibliche. A fronte di una crisi come questa è difficile immaginare che il mondo occidentale e gli Stati arabi che hanno relazioni con Israele – Egitto, Giordania e i firmatari degli accordi Abramo – restino in silenzio, per non parlare di Hezbollah, degli Houthi in Yemen, e forse anche delle milizie sciite in Iraq.

Ciò che rende quasi impossibile l’obiettivo di mettere fine alla guerra tuttavia è la condizione posta da Netanyahu che le forze israeliane siano in grado di agire liberamente nella Striscia, come fanno in Cisgiordania e come hanno fatto a Gaza fino al 2005. Nessun organismo arabo o locale sarà pronto a farsi carico del governo civile in una Gaza decimata – la cui gestione richiederebbe enormi sforzi e investimenti – come subappaltatore di un esercito israeliano occupante. E Netanyahu ha già escluso l’Anp, nonostante quest’ultima abbia gentilmente adempiuto a questo dovere per tre decenni in Cisgiordania.
Non per nulla il governo Usa ha detto fin dall’inizio della guerra che Israele non controllerà Gaza quando sarà finita. Senza coinvolgimento Usa è difficile vedere una possibilità di raggiungere un accordo per mettere fine all’aggressione di Israele.

Se Netanyahu è seriamente intenzionato a insistere sulla sua condizione, allora si può solo supporre che abbia deciso di rinunciare a una exit strategy. Dopo tutto in Cisgiordania, che Netanyahu presenta come un modello, Israele non è riuscito a sottomettere completamente la popolazione palestinese nemmeno dopo 56 anni. Oltre 30 battaglioni operavano in tutto il territorio occupato prima del 7 ottobre, e hanno comunque incontrato resistenza. Di quanta potenza di fuoco avrà bisogno Israele per eliminare tutta la resistenza a Gaza?

La condizione di Netanyahu rende anche quasi impossibile fare un accordo sugli ostaggi israeliani. Che incentivo ha Hamas per raggiungere un accordo, se i termini loro imposti includono la loro totale eliminazione e il pieno controllo di Israele sulla Striscia?

Il primo ministro è ovviamente al corrente del fatto che l’unico modo di mettere fine alla guerra e di liberare Gaza dal governo di Hamas passa attraverso qualche tipo di processo internazionale – al quale si sta opponendo a favore della continuazione dell’aggressione dell’esercito. Ma non tutti nel gabinetto di guerra di Israele pongono le stesse condizioni: Benny Gantz, che di recente è stato nominato ministro senza portafoglio, non ha parlato di un controllo militare israeliano continuativo nella Striscia, ma piuttosto di un «regime change». Quindi cosa sta realmente guidando l’agenda dichiarata da Netanyahu?

Un’analisi cinica – non c’è ragione di non essere cinici quando si tratta di Netanyahu – suggerirebbe che il primo ministro vuole estendere la guerra perché sa, o almeno sospetta, che nel giorno in cui la guerra finirà, inizierà il conto alla rovescia per la fine del suo governo. Può essere che Netanyahu si aspettasse che una massiccia aggressione a Gaza avrebbe migliorato la sua posizione politica con il pubblico israeliano, ma si è verificato l’esatto opposto.

Non è certo la prima volta che questo accade nella storia di Israele: Menachem Begin è stato costretto a dimettersi dopo la guerra in Libano del 1982, e Ehud Olmert è stato deposto in gran parte per via della guerra in Libano del 2006.

Nell’obiettare al ritorno del governo dell’Anp a Gaza tuttavia, Netanyahu sta tornando alla posizione dalla quale ha lanciato la sua carriera come primo ministro di Israele. Nel 1996, dopo aver vinto le elezioni dopo l’assassinio dell’allora primo ministro Yitzhak Rabin, Netanyahu svolse un ruolo centrale nel fare marcia indietro sul processo di pace di Oslo e nell’allontanare l’Anp per impedire la costituzione di uno Stato palestinese.

È possibile che Netanyahu pensi che, presentandosi come ostacolo al governo dell’Anp oggi, possa riconquistare una forte base di sostegno nella destra e nell’estrema destra israeliana. Un discorso politico che ruota attorno alla questione del chi è a favore o contro lo Stato palestinese per Netanyahu è molto più comodo di uno dominato dalla domanda se di lui ci si possa fidare o meno per governare il Paese.

Ma qui c’è in gioco qualcosa di più profondo della sola sopravvivenza politica. La missione della vita Netanyahu è stata di eliminare il nazionalismo palestinese. Per lui, questo è l’obiettivo storico di questa generazione del popolo ebraico – un obiettivo che ha ereditato da suo padre – ed è la ragione per cui è stato disposto a rafforzare Hamas a Gaza per anni come strumento per mantenere diviso il movimento nazionale palestinese.

Se questa guerra finisce con un rafforzamento della posizione dell’Anp, anche solo leggermente, e con l’apertura di un percorso che ha come sua bussola la soluzione dei due Stati – come stanno sollecitando statunitensi,  europei e gran parte del mondo arabo – allora l’intera eredità di Netanyahu sarà a rischio. E così, guidato dalla sua ideologia, il primo ministro preferisce prolungare la guerra, anche se non c’è alcuna possibilità di ottenere una vera vittoria militare, per impedire qualsiasi progresso verso un’indipendenza palestinese.

Dopo i massacri del 7 ottobre, Netanyahu non può tornare alla politica di rafforzare Hamas per indebolire il movimento nazionale palestinese. Né il pubblico israeliano né gli Stati uniti lo accetteranno; per loro Hamas è il nemico che deve essere distrutto e non c’è modo di evitarlo. Eppure agli occhi di Netanyahu, la più grande minaccia per Israele e la più grande minaccia per il proposito storico del sionismo è un processo politico con i palestinesi al termine del quale possa essere costituita un’altra entità politica – oltre allo stato ebraico di Israele – tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. E se Israele deve continuare a combattere per prevenire questa minaccia, e se deve vivere per sempre con la spada alla mano per impedire questa possibilità, così sia. Un secolo fa, questo era il muro di ferro di Ze’ev Jabotinsky. Ora questo è il muro di ferro di Benyamin Netanyahu.

Pubblicato originariamente in ebraico su Local Call e in inglese su +972 Magazine (Traduzione a cura di Sveva Haertter)

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