Università e militarizzazione
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Militarizzare significa sottoporre a regime mi-litare cose che militari non sono. Secondo il

dizionario Treccani questo processo può inclu-
dere tre aspetti: l’imposizione di disciplina, la

costruzione di fortificazioni, ma anche l’atto di

«dare un carattere o imporre uno spirito mili-
tare: m. la nazione, la burocrazia, i sistemi educa-
tivi». La recente storia italiana ed europea ne è

un esempio. Si pensi all’occupazione militare di

spazi pubblici come le stazioni, tipica del perio-
do post 11 settembre 2001, o all’aumento delle

fortificazioni lungo i Balcani, al confine greco-
turco, e attraverso il Mediterraneo con l’utiliz-
zo di filo spinato, check-point, droni, aerei, navi

equipaggiate di mitragliette e molto altro. Inol-
tre, a partire dalla Guerra al Terrore di George

W. Bush, passando per “l’invasione migrato-
ria” dell’estate 2015, fino ad arrivare al conflit-
to russo-ucraino contemporaneo, non solo lo

strumento tecnico, ma anche il linguaggio mi-
litare e il suo “spirito” si sono diffusi come un’i-
nevitabile realtà del tempo in cui viviamo. Per

gran parte del 2022 non c’è stato giorno in cui
i nostri quotidiani e telegiornali abbiano fatto
a meno di imporci un’educazione discorsiva
fatta di questo e di quel cingolato, di gittate e
di scudi, di sofisticati sistemi satellitari per il

tracciamento delle truppe nemiche e di relati-
ve tattiche, strategie, e necessari investimenti.

Le nostre chiacchiere da bar e da tavola sono
gradualmente virate sul tema militare: la sua
presenza è diventata ineludibile. Anche quando

come individui siamo stanchi del ritornello nu-
cleare a cui siamo sottoposti, il militare è parte

di noi, quasi come un affetto, una predisposi-
zione d’animo, un “carattere” di cui volenti o

nolenti non possiamo fare a meno.
La militarizzazione della società europea e
più largamente occidentale è un processo che
ha molteplici radici economiche e politiche. Con

questo intendo dire che non è semplicemente ri-
conducibile a una cerchia di pochi soggetti po-
tenti, con un chiaro piano di azione. Si tratta in

realtà di un assemblaggio diffuso e non lineare,
fatto di interessi locali e translocali, a cavallo tra

mercati privati, pubblici e attraversato da logi-
che finanziarie e sentimentalismi. L’allineamento

di questi elementi in una direzione piuttosto che
in un’altra non avviene solo nelle grandi stanze

del potere, ma riguarda anche cose apparente-
mente banali, quali la sottoscrizione di contratti

a scala locale, o l’arruolarsi di singoli individui
nell’ampio apparato industriale, burocratico e
culturale che ha a che fare con le forze armate.
In sostanza, se militarizzare significa anche “dare
un carattere” alle cose, le operazioni necessarie

per fare ciò devono per forza essere quotidiane,
diffuse a diverso ordine e grado. Ci deve essere

qualcuno che tutti i giorni si metta a scrivere ar-
ticoli sul cingolato Leopard ii, qualcun altro che

li legga e li posti on-line, una terza persona che
si occupi di gestire la contabilità della ditta che
ha fatto la vernice del Leopard, per non parlare

degli individui che hanno progettato e assem-
blato il carro, nonché di molteplici altri che, a

scale e intensità diverse, anche molto lontane
dalla materialità e dalla tecnica del prodotto in
questione, hanno in qualche modo permesso al

flusso sociale, culturale ed economico della mili-
tarizzazione di circolare, e quindi di continuare a

educarci alla sua inevitabilità.

Data la complessità del tema, il mio mode-
sto contributo con questo libro si situa a una

particolare intersezione: quella tra ambito mi-
litare e ricerca pubblica. In tutto il mondo, la

relazione tra l’Accademia e il Militare assume

forme e connotazioni che dipendono dalle lo-
cali strutture sociali e politiche. Si passa da casi

dove la presenza di polizia in assetto militare
nei campus universitari è una normale realtà,
ad altri in cui de facto la ricerca universitaria
può espletarsi solo in quanto funzionale agli

interessi dell’autocrate di turno, spesso tra-
dotti in questioni legate all’efficientamento di

eserciti o alla produzione di gittate nucleari.
Per non ampliare troppo il campo, qui mi vo-
glio concentrare sul rapporto tra Università e

Militarizzazione in contesti in cui, almeno no-
minalmente, i due mondi sono pensati per es-
sere autonomi l’uno rispetto all’altro. Mi baserò

in particolare sulla mia esperienza quindicen-
nale di lavoro nel Regno Unito, in Australia, e

solo recentemente in Italia, coadiuvata da una

profonda conoscenza del sistema statuniten-
se ed europeo. Queste pagine vogliono essere

una guida per affrontare una semplice doman-
da: qual è il problema del rapporto tra Università

e Militarizzazione, e come possiamo investigarlo
ed eventualmente combatterlo? Partirò dalle idee

che fondano questa relazione e da come ven-
gono comunicate. In un secondo momento,

esaminerò una breve serie di esempi – italiani
e non – che permetteranno a chi legge di farsi

un’idea più chiara della posta in gioco. Mi sof-
fermerò in particolare su un caso che investe il

Politecnico di Torino, dove lavoro, perché cre-
do sia importante che chi fa parte dell’Accade-
mia guardi nella propria “casa”, prima che al-
trove. Infine, prenderò spunto da un insieme di

pratiche di resistenza con le quali si è cercato

di affrontare l’avvicinarsi tra questi due mon-
di. L’intenzione è di offrire un insieme di spunti

attraverso i quali ognuno e ognuna di noi, ma

in particolare il corpo studentesco che popo-

la le nostre università, possa lottare per affer-
mare una liberazione del sapere accademico

dalle colonie del militare. In altre parole: una
lotta per sottrarre la ricerca, l’insegnamento e
gli spazi dell’Università a industrie fondate su
violenza, dolore e morte.

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