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Il ministro vuole rimodulare il concorso esterno in associazione mafioso. Ma quel reato ha una genesi e una storia molto precise oltre a una solida giurisprudenza

È ormai un rito quello di aprire i giornali ogni mattina ed andare subito alla ricerca delle novità che il ministro Nordio ha in mente per riformare la giustizia.

 

 

Giovedì, ad esempio, l’ennesima sorpresa di segno negativo: si vuol “rimodulare” il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, “un reato evanescente, un ossimoro”. L’ossimoro, secondo l’Enciclopedia Treccani, è una figura retorica che consiste nell’unione sintattica di due termini contraddittori, in modo tale che si riferiscano ad una medesima entità. L’effetto è quello di un “paradosso apparente”, come quello di “ghiaccio bollente”.

 

 

Vediamo allora se il “concorso esterno” è compatibile o meno con il reato di associazione di stampo mafioso. E facciamolo partendo dalla storia della risposta giudiziaria italiana al terrorismo degli anni di piombo.

Come è noto, il sequestro di Aldo Moro nella primavera del 1978 colse la magistratura in gran parte impreparata, ma proprio quel tragico evento determinò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, operando nelle aree più colpite dal terrorismo, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari e di polizia interessati dal fenomeno, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Nel corso di tali frequenti incontri, quei magistrati elaboravano anche indirizzi giurisprudenziali da applicare in modo uniforme.

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Furono così definiti, in quella sede i requisiti tecnici del concorso “esterno” nel reato di banda armata (previsto da una norma ormai desueta del Codice Penale) e del concorso “morale” dei capi delle associazioni terroristiche per gli omicidi ed i ferimenti commessi e rivendicati.

Quanto al concorso “esterno” furono incriminati vari soggetti che, pur non facendo parte delle Brigate Rosse o di altre organizzazioni, pur non vivendo in clandestinità con false generalità e pur non girando armati e non partecipando ad attentati e rapine, ponevano in essere comportamenti finalizzati a favorire il raggiungimento dei fini – di cui erano consapevoli e che condividevano – di quelle associazioni criminali: l’instaurazione delle dittatura del proletariato! Si pensi ad avvocati che facevano da tramite tra clienti detenuti e militanti liberi (persino ricercati) o a chi si attivava per prendere in locazione appartamenti destinati ad essere basi (o “covi”, come allora si diceva) per latitanti e clandestini.

 

 

I giudici, Corte di Cassazione inclusa, accolsero quelle tesi con motivata convinzione, così che esse diventarono la stabilizzata base giuridica per affermare in seguito anche la responsabilità dei concorrenti esterni in associazione mafiosa e dei componenti delle varie commissioni e “cupole” per i più efferati delitti di mafia.

Non è fuori luogo, a tal proposito, citare il fatto che, nel periodo finale degli anni di piombo, un gruppo di magistrati siciliani (tra cui Giovanni Falcone) che si occupavano di mafia partecipò a vari incontri con i colleghi che trattavano il terrorismo: ciò fecero non certo perché esistessero collegamenti fra Brigate Rosse, Cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra, ma per conoscere le modalità del coordinamento spontaneo da loro realizzato e per condividere ed approfondire gli orientamenti giurisprudenziali in tema di reati associativi. Si rivelò, dunque, di portata storica, il recepimento, in relazione al reato di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.), dei citati orientamenti elaborati in ordine al concorso “esterno” nel reato di banda armata (art. 306 c.p.), sicché iniziarono ad essere incriminati e definitivamente condannati per associazione mafiosa anche coloro che, per “convergenza di interessi” e pur non formalmente “battezzati” o “affiliati”, avevano posto in essere condotte stabilmente finalizzate a supportare le associazioni mafiose nel perseguimento dei propri scopi che essi stessi condividevano da altra sponda.

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Dov’è l’ossimoro nordiano? E dove la evanescenza del concetto di “concorso esterno”?

Il reato di concorso “esterno”, tra l’altro, non è affatto una previsione contenuta in una specifica – e “rimodulabile” – norma del codice penale. Non è prevista dall’articolo 110 del codice penale, che parla solo di persone che concorrono nel reato, né nel delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso o di qualsiasi altro genere.

 

Dunque, trattandosi di interpretazione della legge e di indirizzi giurisprudenziali, è sperabile che il ministro Nordio eviti di coltivare progetti di rimodulazione ardita del concorso esterno in associazione mafiosa che consente da decenni di colpire la zona grigia della criminalità mafiosa, cioè la più pericolosa. A meno che non si voglia inibire ai magistrati interpretazioni della legge sgradite all’esecutivo, come si sono permessi di fare recentemente giudici di Milano e Roma.

Sorgente: Quello che Nordio dimentica – la Repubblica

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