Ha seguito otto mondiali di calcio, sette olimpiadi e innumerevoli mondiali di pugilato. Vicino soprattutto a Muhammad Ali
Gianni Minà ha passato gli ultimi tempi a raccontare la sua vita su Instagram, e che vita. Non aveva voglia di mostrarsi, non dava interviste, aveva bisogno dei suoi tempi per rispondere, e ormai i tempi delle tv e dei giornali sono diventati feroci. Ha detto tante volte no, però si andava da lui con devozione, aspettando un racconto sulle sue stelle ribelli, Muhammad Ali, Pietro Mennea, Maradona. Proprio Diego gli aveva lasciato un messaggio sulla segreteria poco prima di andarsene, e Gianni ne soffriva ancora.
L’annuncio della sua morte è stato dato dalla famiglia sui social, che sono anche un modo per misurare la sua straordinaria popolarità. Stava anche su Facebook perché non voleva censure né misure, stava preparando un libro sulla boxe, aveva portato ai Festival il film della sua vita, ma a Bari c’era andata solo sua moglie Loredana, regista. Non si sentiva più nemmeno uomo Rai e aveva lanciato un crowdfunding per riprendersi l’archivio delle immagini.
Gianni Minà, 80 anni e una lunga avventura: “Ho raccontato il mondo con le voci dei protagonisti”
Rideva di gusto della gag di Fiorello “Eravamo io…” perché era la pura verità. Casa sua era un misto fra Cinecittà e le Olimpiadi, fra Sanremo e un festival di musica latinoamericana. Passava Monica Bellucci in completo di pelle, e c’era Arbore che suonava, i cubani Moncada che facevano Guantanamera. O Massimo Troisi che portava Jennifer Beals, la ballerina di Flashdance. Ma poteva capitare di pranzare con Frei Betto, teologo della liberazione, che invitava tutti alla preghiera. Gianni Minà era un giornalista magnete e raccontava compiaciuto di quando aveva messo allo stesso tavolo del ristorante García Marquez, Sergio Leone, Muhammad Ali e Robert De Niro. La foto è storica, sulla sinistra c’è una donna che guarda lui, non loro e si chiede: come avrà fatto?
Per il docufilm Una vita da giornalista aveva ritirato fuori la 500 con cui accompagnò i Beatles in giro per Roma nell’anno di grazia ’65. È vero, arrivarono davanti al Piper e c’era troppa fila, Gianni li portò al Club 84. Forse nacque lì quel suo racconto sui favolosi anni 60, anche se mi viene da dire che l’intera sua esistenza professionale è stata qualcosa di favoloso.
Nell’ambiente era invidiato e lavorava da solo: prima dei Mondiali di Argentina ’78 fu l’unico giornalista a chiedere in conferenza stampa ai membri della giunta militare: “Qui si rincorrono voci su persone che spariscono”. “Non ci risulta” rispose dal tavolo l’ammiraglio torturatore, ma poi funzionari Rai gli consigliarono di ripartire subito.
La stagione di Blitz è antologia della televisione. Portava su Rai2 la domenica pomeriggio Fellini, Celentano, Bene, naturalmente Proietti, Pino Daniele. Poteva capitare che De Niro lo chiamasse a Venezia, in mezzo a cento microfoni: Gianni, vieni qui tu per favore!
Sicuramente le interviste a Fidel Castro furono un punto di svolta della sua vita. La prima dura sedici ore e c’è il Lìder Màximo che inizia dicendo “Cercherò di sintetizzare”. La prendono le tv di tutto il mondo. In Natural Born Killers c’è uno che dice: “Voglio un’intervista come quella che ha fatto quell’italiano a Castro!!!”. Ma nell’edizione del film che è arrivata da noi quella battuta non l’hanno messa. Gianni fu accusato di aver fatto un’intervista accondiscendente e ne soffrì.
Ha lavorato con Robert Redford, ha conosciuto e intervistato gli amici del Che. Ha portato a spasso per Roma Eduardo Galeano, che un giorno arrivò a Repubblica perché voleva scrivere un libro sul calcio. Sì, Gianni scriveva anche per questo giornale, per la verità sforava con lo spazio, ogni volta era un problema, ma come potevamo tagliare uno scoop… Sarà forse ora sulla stessa nuvola di Gianni Mura e Mario Sconcerti: insieme hanno portato un racconto dello sport mai banale, che andava oltre il campo di gioco, che toccava il cuore della gente. Abbiamo avuto sue esclusive con Mennea, con Maradona. Io ho lavorato tanto al suo fianco, non è stato sempre facile, ma all’ombra dei giganti si sta benissimo, e si impara sempre. Ogni tanto scompariva, magari era dentro la Selva Lacandona, alla ricerca del subcomandante Marcos. Che gli aveva fatto arrivare un biglietto scritto a mano, recapitato da un bambino. Quel giorno, Gianni era a Città del Messico insieme a Manuel Vázquez Montalbán. “Mi è mancato solo Mandela” diceva negli ultimi tempi “però ci ho provato”. E ora è il momento delle lacrime.
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