“I titoli al femminile sono legittimi sempre; chi usa questi femminili accetta un processo storico ormai ben avviato. Chi invece preferisce le forme tradizionali maschili ha comunque diritto di farlo”, è invece il commento “tecnico” di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, all’AdnKronos. “Alcune donne non si riconoscono nelle scelte linguistiche della tradizione femminista di marca anglosassone e ribadiscono la propria diversità attraverso scelte alternative di immediata evidenza”, spiega ricordando il precedente di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato. “In questo modo mettono in luce il valore ideologico delle opzioni linguistiche sul genere (le proprie, ma indirettamente anche quelle avverse). Sarebbe riduttivo giudicare tutto questo come una semplice questione grammaticale, perché non lo è affatto”.
Molto critica nei confronti della decisione di Meloni è invece la scrittrice sarda Michela Murgia: “Bisognerebbe chiederle per quale motivo ce l’ha con la lingua italiana. Perché “il presidente” ha il suo femminile che è “la presidente”, quindi non è che si può arbitrariamente decidere quale parte della grammatica italiana rispettare e quale parte no. Quindi non è questione di femminismo, è questione di parlare la nostra lingua. I giornalisti Rai giustamente vogliono scrivere in italiano”, affonda. E aggiunge: “Dal punto di vista simbolico lei, che pretende l’articolo maschile, sta dicendo “io governerò come un maschio”. E questo credo sia la migliore risposta possibile a chi gioisce per una donna al potere. Non è il sesso di chi comanda che conta, è il modello di potere che si ricopre. Il modello di potere di Giorgia Meloni è quello maschilista al maschile”, conclude.