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I nostri acquisti di gas russo su base annua sono raddoppiati. Lo zar ha perso per sempre il popolo ucraino ma ha guadagnato influenza in un Paese più importante, il nostro, membro della Nato e del G7. Oggi a Roma c’è un arco di forze politiche filo-Mosca che durante la Guerra fredda non ci sognavamo

L’Italia ha raddoppiato i suoi acquisti di gas russo, su base annua. L’aumento delle importazioni ha avuto un’accelerazione, sia pure con la legittima giustificazione di fare approvvigionamenti per il prossimo inverno. Di conseguenza il nostro Paese finanzia molto più la guerra di Putin di quanto stia concretamente armando l’Ucraina.

Le armi che forniamo a Kiev sono poche, come Zelenski è costretto a ricordarci tutti i giorni, in un contesto in cui la pressione militare russa è tornata ad essere tremenda. E non convince la tesi per cui i nostri pagamenti di gas russo sono strutturati in obbedienza alle sanzioni in modo da sterilizzarne l’uso per spese militari: queste sono ingenuità dei tecnocrati di Bruxelles che s’illudono di essere più furbi di un sistema autoritario, abituato da anni ad aggirare sanzioni finanziarie occidentali per aiutare regimi sotto embargo in Corea del Nord, Iran, Venezuela. Insomma l’Italia nel bilancio economico reale non sta danneggiando la Russia, anzi partecipa al finanziamento della sua macchina militare.

Nonostante questo continua un coro di voci italiane che descrivono Roma come un lacchè della Nato, quindi dell’America: l’Impero del Male per definizione, la superpotenza aggressiva che prima avrebbe «accerchiato» Putin allargando la Nato ai suoi confini, poi starebbe perseguendo una «guerra per procura», aizzando gli ucraini a resistere a oltranza.

In questa rappresentazione assai diffusa in Italia, scompare il protagonismo di tutti gli altri. Si dimentica il fatto che per libera volontà democratica i popoli dei Paesi dell’Est liberatisi del giogo sovietico negli anni Novanta chiesero di entrare nella famiglia occidentale, aderire all’Unione europea, ottenere la protezione della Nato come una polizza vita contro i futuri rigurgiti d’imperialismo russo.

Si dimentica che la nazione ucraina ha deciso di difendere la propria vita e la propria libertà e si è guadagnata sul campo il rispetto dell’Occidente. Quegli stessi Stati Uniti che meno di un anno fa venivano descritti dagli antiamericani d’Italia come una superpotenza in decomposizione, umiliati dalla débacle di Kabul, un disastro dovuto all’incompetenza dei loro vertici, oggi invece sono denunciati come un mostro di efficienza, capaci di piegare il mondo intero ai propri disegni diabolici, di imporre la propria volontà ai popoli finlandesi, svedesi, ucraini, nonché a Mario Draghi.

Le caricature italiane degli Stati Uniti in questi giorni sono sempre più rozze. Perfino le tragiche sparatorie nelle scuole diventano il pretesto per denunciare nei talkshow nostrani che la politica estera americana è anch’essa in ostaggio alla lobby delle armi. Non importa se c’è qualche confusione nei soggetti: in realtà gruppi industriali come Boeing Lockheed e Raytheon che forniscono armamenti al Pentagono non gestiscono i gun-shop domestici dove si comprano pistole e fucili. Le armi usate nelle sparatorie all’interno degli Stati Uniti sono anche di fabbricazione russa, cinese, e perfino italiana (costano meno).

Tornano a circolare in Italia pregiudizi degni dei peggiori anni Cinquanta, si descrive un capitalismo americano assetato di guerre mentre il conto delle perdite fra Wall Street e Big Tech è tale che il capitalismo davvero influente è piuttosto assetato di pace ad ogni costo. Se davvero la politica estera di Biden fosse decisa dalle «lobby», bisognerebbe guardare a quelle che pesano di più. Il grande capitalismo americano ha sempre perseguito gli affari con Cina e Russia, ha prediletto una globalizzazione indifferente ai diritti umani, e vorrebbe chiudere questa guerra al più presto. La politica estera non è solo una derivata degli interessi materiali dei poteri forti, è il frutto di una sintesi con tante altre cose: ideologie, visioni del mondo, valori, sensibilità dell’opinione pubblica, e anche un certo peso da dare alla tenuta delle alleanze internazionali.

Esiste un establishment globalista, detto The Blob, che è affezionato all’influenza globale degli Stati Uniti (e criticò Biden per aver chiuso la guerra in Afghanistan). Esistono anche robuste correnti isolazioniste, da Donald Trump alla sinistra radicale. Viene generalmente ignorato in Italia il vivace dibattito americano sull’Ucraina, dove non mancano le voci in favore di un appeasement o accomodamento con Putin. Tra queste voci si è sentita al World Economic Forum di Davos quella di Henry Kissinger, ultranovantenne e ancora autorevole. Kissinger appartiene al campo – assai folto sia a destra che a sinistra – degli analisti americani che vogliono fare concessioni a Putin nella speranza di fermarlo. Va ricordato che la realpolitik di Kissinger fu sempre indifferente ai diritti umani o alla democrazia, assegnando invece un valore enorme alla stabilità. Congelare uno status quo è stata una delle sue linee-guida, ispirata al Congresso di Vienna del 1815 che restaurò alcune monarchie in barba alle aspirazioni democratiche dei popoli.

Altri gli obiettano che Putin capisce solo i rapporti di forze: interpreterebbe le concessioni come un incoraggiamento per future aggressioni; mentre al contrario l’allargamento della Nato impone dei limiti ai suoi appetiti imperialisti. Chi accusa Biden di volere la guerra a oltranza non tiene conto dei condizionamenti in cui si muove. Nella situazione attuale un presidente degli Stati Uniti non può telefonare a Putin e dirgli «ti dò il Donbass se ti fermi», negoziando sopra la testa dell’Ucraina. Non può farlo per rispetto a Zelensky, e per tenere conto delle sacrosante paure di molti paesi dell’Est, a cui si aggiungono ora Svezia e Finlandia. Avevo ventun’anni e debuttavo come giornalista della stampa comunista in Italia quando il segretario generale del Pci Berlinguer disse a Giampaolo Pansa, in un’intervista sul Corriere, che si sentiva più sicuro nella Nato.

L’Italia di oggi ha un arco di forze politiche filo-russe che allora non ci sognavamo. Faccio fatica a trovare negli anni della Guerra fredda una vicenda equivalente al forse-viaggio di Salvini a Mosca. Certo è sempre esistita in Italia una larga tradizione antioccidentale e antiamericana: dal fascismo al comunismo pre-svolta di Berlinguer, a certi settori del mondo cattolico. Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento alcuni papi avevano esplicitamente condannato i cattolici Usa per deviazioni «moderniste e americaniste»: troppo liberali. Però quando un democristiano di sinistra come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira si adoperava per la pace in Vietnam, prima di tutto stava dalla parte delle vittime. Oggi Putin ha perso per sempre il popolo ucraino, in compenso ha guadagnato influenza in un Paese più importante, l’Italia, membro della Nato e del G7.

Sorgente: La propaganda antiamericana ignora quanto l’Italia sta pagando il gas di Putin | Federico Rampini

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