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Lo storico legame in campo energetico con Mosca nasce nel secondo dopoguerra. Dal 2013, dopo anni di alternanza con l’Algeria, la Russia è stabilmente in cima alla classifica dei maggiori fornitori. Secondo gli esperti sentiti da ilfattoquotidiano.it, i motivi sono la capacità produttiva dei giacimenti e il prezzo. Gli idrocarburi russi erano meno cari. Così tutti i governi hanno sorvolato sul fatto che, come ricorda l’ex ministro Alberto Clò, il leader del Cremlino ha sempre puntato a “fare dell’energia l’architrave del ritorno della potenza russa a livello internazionale”

“Il metano ti dà una mano”. Chi ha superato i quaranta non ha dimenticato la pubblicità che a fine anni Ottanta accompagnava l’arrivo nelle nostre abitazioni di “un’energia nuova”, mentre lungo la Penisola veniva realizzata una rete di distribuzione capillare. Col referendum del 1987 post Chernobyl, l’Italia aveva deciso di dismettere per sempre le proprie centrali nucleari. E bruciare gas naturale per il riscaldamento o per generare energia elettrica era meno inquinante che bruciare carbone o gasolio. In realtà il gas non era “un’energia nuova”, visto che il primo importante impulso allo sfruttamento di giacimenti in Pianura Padana risale al secondo dopoguerra, quando Enrico Mattei evitò lo smantellamento dell’Agip e ci costruì sopra l’Eni. A quel periodo risale anche lo storico legame in campo energetico con l’Unione sovietica, un legame passato per le importazioni prima di petrolio poi anche di gas e funzionale a contrastare il dominio delle Sette sorelle americane. Ha dunque radici lontane la nostra dipendenza dal gas, e in particolare dal gas russo. E in questi settant’anni, dice Davide Tabarelli, docente all’università di Bologna e presidente di Nomisma Energia, “i russi si sono sempre dimostrati dei fornitori molto affidabili. I flussi dalla Russia non si sono bloccati neanche adesso, anzi sono aumentati. Questa catastrofe della guerra in Ucraina non era prevedibile”. Il gas russo è sempre stato abbondante e conveniente da un punto di vista economico. Avremmo potuto oggi esserne meno dipendenti? In parte sì, con una maggiore diversificazione delle infrastrutture per importare gas e, negli ultimi anni, un maggiore utilizzo delle fonti rinnovabili.

Da dove importiamo gas – Non siamo l’unico paese europeo a importare molto gas da Mosca, ma siamo tra quelli che ne consumano di più. Tra produzione di energia elettrica, riscaldamento e cogenerazione negli impianti industriali, oggi consumiamo più di 70 miliardi di metri cubi all’anno, equivalenti a circa un terzo del nostro fabbisogno complessivo di energia. Nel 2021, in particolare, su 76 miliardi di metri cubi consumati, ne abbiamo estratti sul nostro territorio 3,3 miliardi. Ben 72,7 li abbiamo importati da fuori, soprattutto via gasdotto: il 40% dalla Russia, il 31% dall’Algeria, il 10% dall’Azerbaijan attraverso il Tap, il 4,4% dalla Libia e il 2,7% dalla Norvegia. Il 13,5% del gas importato è arrivato nello stato liquido ai nostri tre rigassificatori, soprattutto dal Qatar (9,5%), seguito da Algeria e Stati Uniti.

Negli ultimi trent’anni la Russia si è alternata più volte con l’Algeria in cima alla classifica delle esportazioni di gas nel nostro Paese. Nel 1990, quando importavamo 30,5 miliardi di metri cubi, dalla Russia ne arrivava il 46%, mentre dall’Algeria il 35%. Un sorpasso avviene nel 1992, con l’Algeria salita al 43% e la Russia scesa al 39. Nei due anni successivi domina la Russia, ma nel 1995 l’Algeria è di nuovo al primo posto e ci resta a lungo, con la Russia che nel 2010 scende addirittura al 20%. Nel 2013 Mosca raggiunge il 45% e torna in testa, rimanendoci fino a oggi. Cosa c’è dietro queste oscillazioni? Hanno pesato le scelte dei singoli governi, più o meno vicini alla Russia? Secondo gli esperti sentiti da ilfattoquotidiano.it, dietro l’andamento delle importazioni ci sono state soprattutto logiche commerciali e legate alla capacità produttiva degli esportatori. Fattori entrambi favorevoli alle importazioni dalla Russia.

Contratti ‘take or pay’ e mercato ‘spot’ – Gli accordi sul gas, a livello di standard internazionale, sono caratterizzati dalle clausole ‘take or pay’. Visto che costruire un gasdotto richiede investimenti particolarmente onerosi, importatore ed esportatore firmano contratti a lungo termine (anche 20-30 anni), accordandosi su una quota minima di gas che ogni anno verrà trasferita: se l’importatore non preleva (take) il gas che ha promesso di comprare, lo paga ugualmente (pay). Il prezzo del gas non è fisso, ma dipende da un meccanismo di indicizzazione. Fino a una decina di anni fa l’indicizzazione era interamente basata su prodotti petroliferi. La crisi del 2008 ha causato un crollo nei consumi e una maggiore disponibilità di gas, dovuta anche all’arrivo sul mercato dello shale gas americano. Così il gas, soprattutto quello liquido destinato ai rigassificatori, ha iniziato a essere commercializzato anche sulla base di acquisti giornalieri spot. Sono nati luoghi simili alle borse, dove ogni giorno viene determinato il prezzo spot del gas. Oggi mercato spot e contratti a lungo termine take or pay convivono, ma questi ultimi pian piano hanno iniziato a essere indicizzati sempre più al prezzo spot del gas anziché ai prodotti petroliferi.

Si spiega anche così, oltre che con la capacità produttiva dei giacimenti, il sorpasso delle importazioni russe su quelle algerine degli ultimi anni: “Non si preleva gas in base a dove la Farnesina dice di prelevarlo ma, nel rispetto delle quantità minime previste dalla clausole take or pay, in base al prezzo”, spiega Massimo Nicolazzi, più di 35 anni di esperienza nel settore degli idrocarburi, oggi docente di Economia delle Risorse energetiche all’università di Torino e membro del consiglio scientifico di Limes. “Il gas algerino è rimasto a lungo indicizzato solo a prodotti petroliferi in un periodo in cui il petrolio si rivalutava più del gas e così era più caro. A questo si aggiunga che negli ultimi anni i russi hanno messo dei volumi di gas sul mercato spot, oltre a quello previsto dai contratti a lungo termine”.

I russi, del resto, hanno sempre avuto tutto l’interesse a esportare gas a prezzi convenienti per l’Europa, in modo da garantirsi un afflusso di valuta pregiata. Si può però discutere su quanto sia stato opportuno per l’Europa far dipendere la propria politica energetica da logiche commerciali anziché politiche, come fa Alberto Clò, ex ministro dell’Industria e oggi direttore della rivista Energia: “Dopo essere salito al potere, nei primi anni 2000 Putin esprime in un documento ufficiale del Cremlino la sua duplice intenzione: da una parte ricostruire dalle fondamenta l’industria nazionale degli idrocarburi, devastata dalle forti privatizzazioni di Eltsin, dall’altro fare dell’energia l’architrave del ritorno della potenza russa a livello internazionale. È evidente che se per noi il gas era un fatto economico-commerciale, per la Russia era un fatto politico. Nel tempo l’Europa si è dimenticata che l’energia è un fatto politico, non meramente economico”.

South stream e wikileaks – È un fatto talmente politico che agli Stati Uniti, sin dal secolo scorso, non è mai andata a genio la dipendenza dei paesi europei da petrolio e gas russi. Nel 2010 alcuni cablogrammi svelati da Wikileaks raccontano delle preoccupazioni statunitensi per l’amicizia tra Berlusconi e Putin e l’intesa sul South Stream tra Eni e Gazprom. Il South Stream era il metanodotto che avrebbe dovuto essere posato sul fondo del Mar Nero in modo da aggirare l’Ucraina e raggiungere, tra gli altri paesi, l’Italia. Il primo memorandum d’intesa viene firmato nel 2007, sotto il secondo governo Prodi, da Paolo Scaroni, messo al vertice di Eni da Berlusconi. Due anni dopo, quando al governo è tornato l’ex Cavaliere, l’accordo ha un ulteriore impulso: Scaroni e il suo omologo di Gazprom firmano a Sochi, alla presenza di Berlusconi e Putin, una nuova intesa per aumentare la capacità del gasdotto da 31 a 47 miliardi di metri cubi all’anno. Il progetto sconta però la contrarietà dell’Unione europea e viene definitivamente abbandonato nel 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Se il South Stream fosse stato realizzato, oggi saremmo ancora più dipendenti dal gas russo.

Scarsa diversificazione e poche rinnovabili – Una volta chiusa la porta al nucleare col referendum del 1987, altri fattori avrebbero potuto rendere la nostra politica energetica meno dipendente dalla Russia. Tra questi, un maggiore sviluppo delle fonti rinnovabili: “Hanno avuto un incremento annuo nella capacità produttiva del 13% dal 2008 al 2013 – nota Giovanni Battista Zorzoli, presidente onorario del coordinamento Free (Fonti rinnovabili ed efficienza energetica) – per poi scendere a un incremento annuo di appena l’1-2%”. Tra le altre soluzioni oggi sul tavolo per svincolarci dal gas russo, oltre a un ben poco auspicabile ritorno del carbone, ci sono un incremento della produzione interna di gas, la costruzione di nuovi rigassificatori e il potenziamento dei gasdotti esistenti. Tutti temi che a fasi alterne sono stati al centro del dibattito e delle polemiche negli ultimi vent’anni.

Il calo della produzione nazionale – Tra il 1994 e il 1996 l’Italia aveva superato una produzione annua di 20 miliardi di metri cubi di gas, via via scesi fino ai 4,8 miliardi del 2019 e, con la pandemia, ai 4,1 del 2020 e 3,3 del 2021. “Già dai primi anni 2000 abbiamo avuto un costante calo della produzione nazionale, nonostante il Nord Adriatico sia tutt’ora ricchissimo di gas – dice Tabarelli -. Poi nel 2010 c’è stato l’incidente al pozzo Macondo nel Golfo del Messico, che in Italia ha avuto come conseguenza il divieto di perforazione entro le 12 miglia dalla costa. È nata anche una forte ostilità contro le trivellazioni. Prima Monti, poi Letta han cercato di farle ripartire. Alla fine è arrivato Renzi che col suo decisionismo ha cercato di spingere con qualche normativa che effettivamente forzava un po’ la situazione”. Così nel 2016 si arriva al referendum contro la norma voluta dal governo Renzi per estendere la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia sino all’esaurimento dei giacimenti: vincono i sì all’abolizione, ma il quorum non viene raggiunto.

Solo tre rigassificatori – Se la Spagna è il Paese europeo con più rigassificatori, ben sei, da noi ce ne sono solo tre: quello di Panigaglia nel golfo di La Spezia, in funzione dagli anni Settanta, il terminale realizzato su un’isola artificiale di fronte a Rovigo, attivo dal 2009, e il terminale galleggiante al largo di Livorno, in funzione dal 2013. Ricevono gas naturale liquefatto proveniente in gran parte dal Qatar, seguito da Algeria e Stati Uniti. Una quindicina di anni fa erano sul tavolo diversi altri progetti, che poi non sono andati in porto: soprattutto per lungaggini burocratiche, opposizione di popolazioni locali e anche, come nel caso del rigassificatore che British gas avrebbe voluto costruire a Brindisi, per una inchiesta che portò a diversi arresti per corruzione nelle procedure autorizzative. “Su alcuni progetti ha pesato anche l’interesse contrario di Eni, che al tempo sarebbe stata danneggiata da un grande afflusso di gas in concorrenza con quello importato dalla compagnia soprattutto via gasdotti. Oggi che il gruppo è diventato un importante fornitore internazionale di gas naturale liquido la situazione sarebbe probabilmente diversa”, dice Gionata Picchio, vicedirettore del giornale online sulle fonti di energia Staffetta quotidiana.

Una cosa va comunque notata: “Dopo la corsa ai permessi per realizzare rigassificatori nel periodo 2008-2010 – dice Nicolazzi – nel decennio successivo la capacità di rigassificazione europea è stata sottoimpiegata, con una percentuale di utilizzo di appena il 20%”. Il motivo? Sempre lo stesso, il gas russo via gasdotto è stato storicamente più conveniente. A non essere utilizzati appieno sono anche i nostri tre rigassificatori: nel 2021, per esempio, su una capacità totale di 15,3 miliardi di metri cubi di gas naturale liquido, ne sono stati importati solo 9,8 miliardi.

L’opposizione al Tap – Tormentata è stata anche la realizzazione del Tap, il gasdotto che attraversando l’Adriatico approda in Puglia per portare dall’Azerbaijan 10 miliardi di metri cubi l’anno. Un progetto su cui ha un sospetto Franco Bernabé, negli anni Novanta primo amministratore delegato di Eni dopo la trasformazione in spa: che sia stato “fortemente contrastato anche da Mosca, con un’attività dei servizi segreti molto incisiva”. Di certo la realizzazione del Tap è stata ritardata dall’opposizione degli ambientalisti, del M5S e del governatore Michele Emiliano. “Tra le argomentazioni utilizzate contro il Tap – ricorda Zorzoli – c’era anche quella di chi lo riteneva inutile perché eravamo collegati via gasdotto con la Russia, un paese considerato molto più affidabile dell’Azerbaijan. Oggi sembra incredibile”.

Sorgente: Cosa c’è dietro la dipendenza italiana dal gas russo. La logica della convenienza presenta il conto: “L’energia è un fatto politico e Putin lo sapeva” – Il Fatto Quotidiano

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