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Una parte delle forze politiche è in grado di connettersi con la sensibilità comune. È una formazione trasversale che coglie il sentimento più profondo della Nazione. In Parlamento, però, ne prende piede un’altra che appare inconsapevole o dolosamente alla ricerca di una strada che porta nella direzione opposta rispetto a quella indicata dai cittadini

Nello spettacolo poco decoroso che il Parlamento ha messo in scena in questi ultimi cinque giorni sta emergendo qualcosa di più grave di un semplice strappo all’equilibrio delle Istituzioni. Si stanno manifestando nell’aula di Montecitorio due Paesi. Che non si riconoscono. Con due codici di valori diversi. Con due capacità di rappresentanza diversa.

Perché è ormai evidente – e i 336 voti a favore di Sergio Mattarella lo dimostrano – che una parte delle forze politiche è in grado di connettersi con la realtà. O forse, ancora di più, con la sensibilità comune. Si tratta di una formazione trasversale, non identificabile con un polo. Ma che coglie il sentimento più profondo della Nazione. Riceve gli input dei soggetti produttivi della società, quelli che si stanno sforzando di uscire da una delle crisi più terribili dal Dopoguerra. Interpreta le esigenze basilari dei cittadini. In sintesi raccoglie la spinta dell’opinione pubblica. Che non vuole salti nel buio ma cerca stabilità. E forse più semplicemente serenità e normalità. Proprio perché gli ultimi due anni sono stati particolarmente difficili. Una larghissima percentuale di italiani — e tutti i sondaggi lo confermano — si è affidata per questo all’attuale capo dello Stato e a Mario Draghi. Quelle 336 schede con il nome di Mattarella sono la rappresentazione di questo stato d’animo.

Tra gli scranni del Parlamento, però, sta prendendo corpo un altro Paese. Che sembra ignorare questi sentimenti. Appare inconsapevole o dolosamente alla ricerca di una strada che porta nella direzione opposta rispetto a quella indicata dai cittadini. Del tutto incapace di metabolizzare i segnali lanciati dal Paese reale. Il tutto con una liturgia che ha poco a che fare con le consuetudini costituzionali e con le opportunità.

C’è un nervosismo e una lunaticità delle scelte che rende tutto poco credibile. Matteo Salvini ha subito uno degli smacchi più duri della sua carriera politica. Una sorta di “Papeete 2”. Ha portato la seconda carica dello Stato — con la complicità della stessa Casellati — a schiantarsi sotto il peso di una montagna di no. Non si tratta solo di un errore. Non è uno sbaglio che si riversa solo su un partito. È l’esposizione di una Istituzione e di una classe politica. Basti notare che dopo la bocciatura, ieri pomeriggio lo spread con i Bund tedeschi ha cominciato a scendere. Mercati e investitori hanno cioè brindato ad una sorta di scampato pericolo.

Eppure, dopo due ore il leader della Lega è tornato a correre di qua e di là, a ricevere candidabili o presunti tali in un edificio di Via Veneto. Come se non fosse accaduto niente e come se niente potesse essere ricondotto alla sua responsabilità. E, appunto come se nulla fosse, ha messo sul tavolo il nome dell’attuale direttore del Dis (il Dipartimento dei Servizi segreti), Elisabetta Belloni. E lo fa sottolineando la possibilità che per la prima volta una donna potrebbe ascendere al Quirinale.

Elisabetta Belloni è sicuramente una donna degna e una servitrice dello Stato. Ma lanciare il nome dei vertici dei nostri 007 in questo modo è totalmente privo di equilibrio. Non si tiene conto della delicatezza di quell’incarico. Dentro i nostri confini e al di fuori.

Sembra che l’obiettivo primario non sia allora scegliere la persona più adatta per la massima autorità dello Stato, ma quello di compiere un gesto teatrale di chi vuol far dimenticare la precedente battuta venuta male. Si utilizza una figura illustre per cancellare le proprie insufficienze. La questione di genere diventa così una maschera. Che questo possa essere il momento per una donna ai più alti vertici delle Istituzioni è indubitabile. Questa operazione, però, rischia di essere di tutt’altro tenore. E la base del Parlamento, quelli che volgarmente vengono chiamati peones, lo hanno capito. Hanno formato un argine che possa almeno tentare di ricostruire un tessuto connettivo con la società.

Anche perché nella mossa di Salvini si evidenza un altro elemento dello stato confusionale in cui versa il nostro sistema dei partiti. A fianco del leader leghista si è schierata la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e il capo dell’M5S, Giuseppe Conte. Un frullato. Da cui, però, sembra nascere una nuova destra e una nuova potenziale maggioranza. Se si apre il pallottoliere e si conta, grillini leghisti e Fdi sulla carta possono contare su 327 deputati alla Camera (quindi la maggioranza assoluta) e su 158 senatori (poco meno della maggioranza di 160).

Se votano insieme il presidente della Repubblica contro tutto il resto, ossia contro Pd, Forza Italia, Italia Viva, Leu e le altre componenti del Gruppo misto, è evidente che si forma una nuova coalizione. Che peraltro — come dichiarato da Giorgia Meloni — avrebbe come primo obiettivo quello di ricorrere subito dopo alle elezioni anticipate. Un vero e proprio corto circuito. Una contraddizione in termini — di cui si è accorto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha bocciato l’ipotesi sostenuta da Conte — anche rispetto alle aspettative più profonde della società civile e del corpaccione più profondo delle due Camere. Una lontananza sempre più marcata tra leadership e base del consenso.

I grillini, poi, sarebbero alla terza giravolta in quattro anni. Erano nati per vincere e governare da soli. Poi si sono adattati a governare con la Lega. Quindi hanno abiurato e si sono convinti a stringere un patto con il Pd e il centrosinistra fino a presentarsi persino insieme alle urne in alcune realtà locali e regionali. Poi hanno accettato di convivere con quello che originariamente era il diavolo, ossia Mario Draghi. L’M5S continua ad essere il punto interrogativo e la variabile incontrollabile della politica italiana. È la maledizione di chi ha pensato che un grande Paese possa essere amministrato e guidato senza partiti. Ma purtroppo per tutti i sostenitori dei movimentismi, allo stato non sono conosciute democrazie senza partiti.

Il sistema politico deve rimettere ordine in se stesso. Deve individuare una fisiologia. Chiunque sarà il nuovo capo dello Stato, dovrà contribuire anche a questo obiettivo. Altrimenti la lunghissima transizione italiana rischia di diventare perenne.

Sorgente: Quirinale, quei due Paesi sempre più distanti – la Repubblica

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