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Simone Innocenti fu il cronista del Corriere Fiorentino che per primo divulgò le telefonate tra la capitaneria di porto e il comandante della Costa Concordia. Il racconto di quei giorni

 

La mia Concordia iniziò così. Con un messaggio che il direttore di allora del Corriere Fiorentino mi aveva mandato sul cellulare : «Ma dove diavolo sei?» e tre chiamate senza risposte, che erano le sue. Erano le 5 del mattino o una notte buia. Comunque una notte che non mi sarei mai scordato. Quella tra il 13 e il 14 gennaio di dieci anni fa. La prima cosa che feci fu richiamare al volo il direttore. Non mi disse neppure pronto, ma solo «Vai all’isola del Giglio, muoviti: c’è stato un naufragio». Chiesi cosa si sapeva, rispose che l’Ansa aveva battuto di un disastro, non risultavano morti, le informazioni erano ancora frammentarie e «quindi parti al volo: sei ancora lì?». Buttai in una sacca diversi vestiti, alla rinfusa. Scesi a casa dei miei genitori, mamma era sveglia, le dissi quello che sapevo, lei mi preparò un caffè. «Stai attento, guida piano», disse. «Guido che sono in ritardo», risposi.

Simone Innocenti
Simone Innocenti

Al Giglio non c’ero mai stato e non sapevo neppure come arrivarci: poco importava. Schizzai come un razzo, la macchina mangiava asfalto mentre il giornale era in assetto da guerra: la redazione puntava su questa storia, aveva mandato tutti i cronisti. Nessuno di noi sapeva cosa si sarebbe trovato davanti. Qualcosa lo capii a Porto Santo Stefano, verso le 9 del mattino. Un’infilata di bus che mi impressionò. Cartelli che indicavano la nazionalità dei crocieristi. Facce di persone scampate a una tragedia. La certezza arrivò verso le 11 del mattino direttamente dall’isola dove solo alcuni colleghi erano riusciti ad arrivare: il sindaco Sergio Ortelli aveva detto in video al sito de La Stampa che c’erano almeno sette morti. La mattina iniziava malissimo e anche se non c’erano le fiamme che avevano distrutto la stazione di Viareggio – come successe il giorno della strage – questa storia si annunciava piuttosto complicata.

«Tu fai l’inchiesta»: solito messaggio del direttore. Imprecai ad alta voce che tanto nessuno mi sentiva: seguire l’inchiesta è difficile, soprattutto quando vai in un posto per la prima volta e non conosci nessuno.Che ne sapevo io delle navi? Di come funziona un’imbarcazione da crociera? Mi attaccai al telefono: qualcuno le indagini doveva farle, bastava capire chi. Il baricentro operativo si spostò alla Compagnia carabinieri di Orbetello, dove c’erano già altri colleghi: ero arrivato esimo. Di più: la notizia del fermo del capitano Francesco Schettino fu data dal Tgr di Radio Raiuno e io non ne sapevo nulla. Non ero arrivato esimo, in questo caso ero arrivato ultimo.

Quella sera raccattai quello che si poteva raccattare, rabberciai qualcosa e spedii un pezzo al giornale mentre le agenzie iniziavano a battere i primi morti e i miei colleghi del giornale ogni tanto mi davano notizie dall’isola. La sera del 15 gennaio mi sistemarono in un hotel a Porto Ercole: è un particolare importante, questo. Assieme a quello più importante, ammesso si possa chiamare particolare e non assoluto, come si dovrebbe invece chiamare: dalla conta dei dispersi mancava Dayana Arlotti, una bambina di 5 anni di Rimini. Fu nel momento stesso che lo seppi a cambiare tutto: fu una frana improvvisa, il tu per tu col dolore che ogni nerista affronta nelle storie di morte. Perché era chiaro che quella bambina era morta ed era chiaro che era una morte atroce, insensata. Come tutte le morti dei bambini, che quando se ne vanno non chiedono neppure scusa, non dicono nulla: muoiono da soli.

Ricordo che piansi. Non lo so perché, non la conoscevo. Ma piansi come piansi per i piccoli Piagentini, anche loro morti in un’altra tragedia, quella di Viareggio. Piansi non perché li conoscevo, ma perché mai – questi bambini – avrei potuto conoscerli: mi sembrava tremendo. E mi dissi – dentro di me lo gridai come giuramento – che quella morte non sarebbe rimasta impunita. Che avrei fatto di tutto per raccontare chi quella morte aveva provocato. Da quel momento in poi non fu più muoversi sul terreno dell’inchiesta ma sulle frontiere del dolore. Le stesse – temo – che affrontarono fino a varcarle i vigili del fuoco che, il 23 febbraio 2012, trovarono quel corpicino nella plancia della nave.

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Concordia, dal naufragio all’ultimo viaggio in 40 immagini del fotografo Massimo Sestini

A quell’hotel dove ero in quei giorni avevo assistito a una scena: i legali di Schettino – gli stessi che erano in caserma dove il capitano fu fermato – erano al tavolo assieme ad altre persone. Su quel tavolo c’era un biglietto: Carnival, che era il colosso americano proprietario della Concordia. I commensali aspettavano un signore perché c’era un posto vuoto e solo quando questo signore arrivò stapparono le bottiglie per bere, ma lo fecero dopo di lui. In segno di rispetto. Di fronte a un uomo che esercitava il potere con pochi gesti calibrati. Capii così che seguire quell’inchiesta poteva farmi impattare con quel mondo e che dovevo prendere qualcosa più di qualche accortezza. Scacchi: fu questa la parola che mi venne a mente quella sera. La mattina successiva il mio giornale sarebbe uscito con la seguente notizia: agli inquirenti risulta una telefonata tra la Concordia e la Capitaneria di Porto. Qualcuno di quel tavolo mi guardò distrattamente: nessuno sapeva che ero un giornalista e nessuno di quel mondo avrebbe mai dovuto saperlo. Gli sorrisi: avevo fatto la mia prima mossa.

Il 17 gennaio ci fu l’udienza di convalida del fermo al Tribunale di Grosseto: era fissata verso le 11. Io ero in piedi alle 6 del mattino, uscii verso le 7 e faceva freddo. Del tempo – poi – non ho mai parlato quando in altri sedi mi hanno chiesto che cosa avessi fatto quella mattina. Tuttavia ho sempre ripetuto esattamente quello che adesso scrivo: poiché a mia mamma dà fastidio l’odore del fumo e siccome io fumo – lo so, è un vizio bruttissimo ma fumo – lascio quando posso il finestrino leggermente abbassato come ho fatto questi giorni visto che il parcheggio dell’albergo è sorvegliato. Di modo che – ho sempre ripetuto – quando mi sono seduto alla guida e ho visto una chiavetta Usb, ho subito pensato che l’avessero buttata nella mia auto dalle fessura del finestrino che lascio aperto perché fumo. E a questo punto non ho fatto altro che prenderla e rigirarmela tra le mani. Poi ho fatto la cosa più ovvia, quella che tutti avrebbero fatto: l’ho inserita nel computer.

Quello che non ho mai detto è che quando ascoltai per la prima volta quelle telefonate ero incredulo. Cioè mi dissi: non è possibile. Ma non che le stia ascoltando ma che qualcuno – vale a dire Schettino – risponda a quel modo a un signore che, seppi in quel momento, si chiamava Gregorio De Falco. Riascoltai le telefonate altre due volte: avevo tempo, l’interrogatorio iniziava alle 11 ed erano appena le 7,40. Così vagolai con la macchina fino a quando non trovai – e questo invece non l’ho mai detto, neppure in altre sedi – una persona dentro un negozio con un computer aperto. Entrai, chiesi la cortesia di poter inviare dei file a un indirizzo. La persona mi guardò stralunata, spiegai che era un’emergenza: voleva per caso sentirli? Fece un cenno affermativo, alzò il volume. A neppure trenta secondi dall’ascolto, si stufò: «Li mandi pure, sono cose innocue». Al giornale i file arrivarono dunque da un altro indirizzo. E non dal mio computer.

Mi assicurai che i file fossero integri, la collega dell’online disse: «Tutto a posto». E a quel punto feci quello che si doveva fare: presi la famosa chiavetta, la frantumai con un sasso, raccolsi i pezzi, li sparsi ovunque. Venissero pure a perquisirmi, tracce non c’erano. Facessero pure i tabulati telefonici, avrebbero trovato chiamate col giornale, con mia madre e una miriade di contatti. Tutti fiorentini. Non un numero di Grosseto, figurarsi di inquirenti grossetani o gigliesi.

Poi scoppiò il finimondo. Quelle telefonate fecero il giro del mondo. Non so se siamo finiti anche su Tele Lapponia ma sulla Cnn sì e col logo del Corriere Fiorentino. Non pensai mai per un attimo a nulla che non fosse l’inchiesta perché dieci anni fa tra il Giglio e Grosseto non c’erano giornalisti ma batterie intere di inviati dei più importanti giornali e telegiornali di tutto il mondo. Dovevo filare l’inchiesta e tenere a bada una redazione che ogni tre per due chiamava e diceva: ma un altro file?

Mi svegliavo presto e andavo a letto tardi: 12-14 ore di lavoro vero e quotidiano solo e sempre su un’inchiesta. I file furono l’acme di quel lavoro giornalistico ma per me valgono quanto tutte le altre notizie che trovai per primo: i presunti corto-circuiti tra Capitaneria di Porto e Costa, il mistero del pc di Schettino che era scomparso e poi era riapparso, la causa di lavoro tra Schettino e la Costa (quella al Tribunale di Genova dove l’ex capitano sostenne che un funzionario gli aveva negato i rimorchiatori a soccorrere la Concordia perché costavano troppo: frase che poi finì nel processo di Grosseto), la foto della biscaggina sulla quale era scappato Schettino, la testimonianza di Palumbo, tutti i racconti di chi era in plancia di comando.

Fu questa la Concordia, per il mio giornale. Per me invece fu un bravo che mi disse mia madre. «Bravo – mi disse – perché in questa tragedia è morta una bambina di 5 anni e hai fatto bene a dire a tutti come mai è morta». E a quel punto pianse, forse pensando a mia sorella Carla che era morta a 6 anni per via di un’operazione sbagliata. E senza che nessun giornalista abbia mai raccontato a qualcuno come mai morì.

Sorgente: Corriere Fiorentino


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