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Tra i partiti prevale lo stallo. È accaduto spesso. I precedenti rivelano che poi si è andati incontro a lunghe votazioni: per eleggere Leone furono necessari sedici giorni, dieci per Pertini e tredici per Scalfaro. E stavolta?

“Sono tutti contro tutti” campeggia sulla prima pagina di Repubblica il 13 maggio 1992. Un mercoledì. È la vigilia del primo scrutinio per il nuovo Capo dello Stato. Le elezioni del 5 aprile hanno fatto scendere la Dc sotto il trenta per cento. Il sistema sta per crollare, dopo oltre quarant’anni. I partiti si presentano in ordine sparso al gran ballo del Quirinale, Norberto Bobbio ha rifiutato la candidatura avanzata da Mario Segni, il Pds voterà per Nilde Iotti. “Fino alla quarta votazione sarà solo un gioco”, è il titolo della cronaca di Sandra Bonsanti.

Le parole che ricorrono: marasma, impotenza, paralisi.

Le parole di queste ore: stallo, confusione, palude.

All’epoca c’era Tangentopoli. Stavolta la pandemia.

Adesso la difficoltà è data dal fatto che l’elezione del Presidente è legata a doppio filo al destino del governo. Bisognerà fare due accordi. Per il Quirinale e per il nuovo premier. E se il presidente del Consiglio traslocasse al Colle, come pare?

LO SPECIALE Il tredicesimo Colle

Manca inoltre il regista. In passato, anche nei momenti più intricati, c’era sempre qualcuno – un leader, o i capi dei grandi partiti – che a un certo punto metteva ordine nel caos. L’ultima volta lo fece Renzi, e portò a Mattarella.

 

 

Podcast – La giornata – Cosa c’è da sapere

Il nome di Berlusconi. Ascolta il podcast

di Laura Pertici

 

Giornata: ascolta il podcast

Draghi è la somma delle debolezze altrui, ma la via del Colle è ancora lastricata di inciampi. La storia rivela che ogni volta che c’è stata incertezza a ridosso poi le votazioni si sono protratte per giorni e giorni.  Fu così nel 1964 per Saragat, ventuno votazioni. Per Leone nel 1971, ventitré votazioni. Per Pertini nel 1978, sedici votazioni. Le elezioni lampo di Cossiga e Ciampi rappresentano in fondo delle eccezioni (una sola votazione). Sette anni fa Sergio Mattarella venne eletto alla quarta, Matteo Renzi lo ufficializzò all’ultimo giorno utile, ma già il 19 gennaio, a due settimane dall’incoronazione, il quadro era delineato. Repubblica titolava così un pezzo informato di Goffredo De Marchis: “La sfida Amato-Mattarella”. 

 

“Si vive alla giornata, fra l’acqua santa e l’acqua minerale”, ammoniva Longanesi. La verità è che la regola italiana è il bailamme. Il garbuglio. L’arabesco di Flaiano. Noi questi siamo. L’attuale vigilia rispecchia il carattere nazionale. Fare le cose all’ultimo, tra veti, subordinate e bizantinismi. Siamo un popolo complicato. La politica poi è complicatissima. Per eleggere Saragat furono necessari tredici giorni. Per Leone sedici. Si può, in piena pandemia, cincischiare per settimane dopo che se ne è parlato per mesi? 

Gli archivi quindi ci dicono che l’incertezza iniziale ha come conseguenza lo gnommero. Prendiamo la prima pagina di Repubblica di mercoledì 29 giugno 1978: “Quirinale nessun accordo. Prevista un’elezione lunga e contrastata. I veri candidati attendono”. Sono passati meno di due mesi dall’uccisione di Aldo Moro, il trauma più grande del dopoguerra. I partiti sono paralizzati dai sensi di colpa. Dalla cronaca di Giampaolo Pansa: “In un pomeriggio strano per Roma, di un sole freddo, quasi nordico, l’armata democristiana si presenta nella sala dell’Inquirente L’ingresso non è di quelli che resteranno nelle immagini della guerra per il Quirinale. I 420 grandi elettori bianchi si fanno vivi a ranghi sciolti, quasi distrattamente. Gli scioperi dell’Alitalia hanno creato vuoti paurosi. L’aria di uno scontro senza pathos e destinato a non decidere nulla. C’è un solo dettaglio che gela il sangue con il ricordo. In questa sala Moro parlò al suo partito per l’ultima volta”. In prima pagina c’è un retroscena di Giorgio Rossi: il comunista Giancarlo Pajetta in segreto è andato a trovare il segretario dc, Benigno Zaccagnini. “Il Pci voterà per Sandro Pertini” rivela. Beh, ci vorranno dieci giorni e poi, per fortuna, il Parlamento eleggerà davvero il presidente partigiano.

Nel 1992 la Dc è divisa al suo interno in tre fazioni, indecisa se suggerire Giulio Andreotti o Arnaldo Forlani. Ai blocchi di partenza ogni partito sceglie un candidato di bandiera: la Dc Giorgio De Giuseppe, Pds e Rifondazione Nilde Iotti, i Verdi Norberto Bobbio, il Psi Giuliano Vassalli, la Lega Gianfranco Miglio, i radicali Oscar Luigi Scalfaro, la Rete di Leoluca Orlando Tina Anselmi. Al quarto scrutinio la Dc punta su Forlani, che si ritira però al sesto dopo aver ottenuto soltanto 479 preferenze. Lo stallo prosegue così per altri dieci giorni. La svolta sotto l’urgenza per l’uccisione di Giovanni Falcone e della sua scorta, il 23 maggio. “Non un giorno in più può durare la ricerca del nuovo Capo dello Stato” scrive Eugenio Scalfari. Scalfaro la spunta su Giovanni Spadolini, sostenuto dalla maggioranza (Dc, Psi, Psdi, Pli) e dall’opposizione, dal Pds alla Rete, dai Verdi a Pannella. In tutto ci sono voluti tredici giorni.

 

 

Il 18 aprile 2013, vigilia del voto per il successore di Giorgio Napolitano. “Partiti divisi e lacerati” scrive Repubblica in prima pagina. Il leader Pd Pierluigi Bersani incontra Silvio Berlusconi intorno a mezzogiorno. Incontro riservato. Gli propone tre nomi: Giuliano Amato, Sergio Mattarella, Franco Marini. Cerca di convincere il Cavaliere a convergere su Mattarella, il suo favorito. Berlusconi si oppone. Preferirebbe Amato. Un nome che però spacca il Pd. “Noi rischiamo Prodi alla quarta votazione” è il pensiero di Silvio, riportato da Francesco Bei. Si trova quindi un compromesso su Marini. A sera i gruppi congiunti di Pd e Sel votano al Teatro Capranica sulla sua candidatura. In 90 si schierano contro. Renzi non lo vuole.  I militanti assediano il Capranica, racconta Tommaso Ciriaco. “Mai a patti con Berlusconi” urlano. “Traditori!”. Il teatro verrà transennato dalla polizia. Fare l’accordo con Berlusconi era visto, nella base pd, alla stregua di una bestemmia.

Questo è il clima nel 2013. La pancia del Paese ribolle. I Cinquestelle sono appena entrati in Parlamento, diventando il primo partito. La nuova star è Alessandro Di Battista. Spira il vento imperioso dell’antipolitica. All’indomani Bersani propone il padre dell’Ulivo, Romano Prodi. Viene impallinato dai franchi tiratori, i 101. Il disastro perfetto. I partiti chiedono in ginocchio a Giorgio Napolitano di accettare un secondo mandato per manifesta impotenza. Lui acconsente. Viene rieletto. I grandi elettori, dopo averlo rimesso in sella, applaudono lungamente il loro fallimento.

 

 

Draghi quindi è il predestinato. Due terzi del Pd, la corrente Di Maio, Matteo Renzi e la Lega di Giancarlo Giorgetti sono, chi più chi meno, in campo per lui, un elenco a cui si aggiungerebbe volentieri anche Giorgia Meloni. Berlusconi resta amletico. Matteo Salvini punta su Maria Elisabetta Casellati. I Cinquestelle mirano solo a salvare la poltrona. Queste vaghezze sono la forza del premier. L’alternativa è la profezia di Rino Formica: il Presidente estratto a sorte. L’elezione tombola.

Sorgente: Elezioni Quirinale, tutti contro tutti come l’Italia del 1978 e del 1992 – la Repubblica

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