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26 April 2024
0 25 minuti 2 anni

Il 4 marzo la ginecologa di Forlì è scomparsa dopo un lungo periodo di sofferenza nel reparto di ginecologia di Trento. La battaglia della sorella Emanuela: “Poteva essere salvata, ora è crollato un muro di omertà”. La testimonianza di una collega sul clima in corsia: “Da inquisizione, ho incubi ancora oggi”. Il primario e la sua vice indagati per maltrattamenti verso il personale: attesa la svolta nell’inchiesta

di Rosario di Raimondo

Nella vita di Sara Pedri c’è un prima e un dopo. Il bivio che cambia la sua esistenza è racchiuso in una data – 16 novembre 2020 – e in un luogo, l’ospedale Santa Chiara di Trento. Un anno fa la ginecologa forlivese di 31 anni si lascia alle spalle la Calabria, dove si è specializzata, e arriva in Trentino. Doveva essere il salto di carriera, il primo passo da “strutturata”. È l’inizio della fine. Il 3 marzo si dimette dall’azienda sanitaria, il giorno dopo la sua macchina viene trovata vicino a un ponte in Val di Non che dà su un torrente. Un luogo tristemente noto per i suicidi. Da allora il corpo non è stato trovato. La famiglia di Sara, difesa dall’avvocato Nicodemo Gentile, sostiene che la dottoressa sia stata vittima di vessazioni e maltrattamenti che l’hanno portata al burnout.

Ma succede di più. Decine di operatori sanitari – medici, ostetriche, infermieri – chiedono di essere ascoltati per raccontare cosa succedeva nel reparto di ginecologia e ostetricia diretto da anni dal primario Saverio Tateo e dalla sua vice Liliana Mereu. Crolla un muro di silenzio che questa estate porta la procura di Trento, con la pm Licia Scagliarini, a indagare i due dirigenti per maltrattamenti nei confronti di quattordici professionisti, fra cui la ginecologa di Forlì. L’inchiesta è aperta e ora è attesa una svolta. Tateo, nel frattempo, è stato licenziato, Mereu trasferita a mille chilometri di distanza.

Un dramma personale ha così illuminato le ombre di un intero reparto ma secondo Emanuela Pedri, la sorella di Sara, non basta: “Alla sua scelta bisogna dare un valore condiviso o tutto è vanificato. Bisogna parlare, sensibilizzare”. Lo scorso 12 dicembre diversi monumenti e palazzi delle istituzioni si sono illuminati di verde in occasione della giornata nazionale per le persone scomparse. Anche la casa di Sara, per una sera, aveva lo stesso colore.

 

La casa di Sara Pedri illuminata di verde 

 

La sorella di Sara: “Mia sorella poteva essere salvata”

“Sara non è scomparsa, sappiamo che c’è stato un gesto estremo. Lei è in fondo al lago. Ma poteva essere salvata, è la certezza più grande che ho, il motivo per cui faccio questa battaglia. Se mi fossi fatta calpestare dai sensi di colpa non sarei arrivata fin qui. Il dolore è un lusso. A quella scelta, tutta sua, ora bisogna dare un valore, condiviso da una massa. Oppure tutto è vanificato”. Emauela Pedri, 45 anni, la sorella di Sara, da mesi è il volto e la voce di una famiglia che cerca la verità.

Chi era Sara?

“Una ragazza indipendente, determinata, appassionata di un lavoro per il quale aveva dato tutta sé stessa”.

Si era specializzata in Calabria. Poi, nel 2020, la chiamata in Trentino. 

“Ho visto una persona sicura di sé, bella come il sole, partire con entusiasmo, felicità, orgoglio e spegnersi in un mese e mezzo”.

Partiamo dall’inizio. Il 16 novembre Sara comincia all’ospedale Santa Chiara di Trento.  

“Già all’inizio lei ha la sensazione che qualcosa non va. I colleghi, a fin di bene, le dicono: qui bisogna solo correre, non ci interessano i tuoi problemi personali, se vuoi sopravvivere devi lavorare. Non conosceva ancora la tossicità di quell’ambiente”.

Quell’ambiente era tossico? 

“La situazione precipita perché lei capisce che quelle frasi erano vere. È sottoposta a ritmi estenuanti, viene vessata, aggredita verbalmente, percossa con uno strumento in sala operatoria, lasciata in una stanza da sola. A gennaio comincia a non mandare più foto, video, audio. In genere lo faceva sempre”.

Il 19 febbraio, per un breve periodo, torna a casa.  

“L’ho costretta a prendere un certificato di malattia. Non si faceva vedere perché era imbarazzata di com’era ridotta. Si era ammalata, era in burnout, una sindrome tragica”.

Come la trovò in quei giorni? 

“Aveva perso 7-8 chili. Se ne stava accovacciata in un angolo. Voleva pranzare in disparte. Si mangiava le unghie fino alla pelle. Si estraniava: una volta sono entrata nella sua stanza per alcuni minuti e lei non se n’era nemmeno accorta. Non dormiva più”.

Cosa vi diceva? 

“Ricordo che disse: ‘Quando si è felici il tempo scorre veloce’. Ma anche parole come: ‘Voglio scomparire’. Quando vedeva la nostra reazione aggiungeva: ‘Ma no, cosa pensate, mica ho il coraggio di togliermi la vita, mi fa paura anche l’otturazione dei denti…'”.

Scriveva? 

“Sì. Stava preparando una lettera di dimissioni. Ma non formale: voleva spiegare ai suoi superiori il perché del proprio malessere. Degli scritti sono stati trovati nel suo appartamento. Lei diceva: ‘Proprio adesso che si diventa grandi, io non riesco a proseguire’. Aveva associato l’essere diventata una strutturata con l’essere grande. Come dire: proprio adesso che devo dimostrare chi sono, non riesco. La malattia ti pone davanti a uno specchio che non vuoi vedere, non accetti la tua immagine, quel malessere lo vuoi togliere. Non possiamo capire fino in fondo di cosa Sara si è voluta liberare. Lei è morta delle paure che le hanno fatto venire: se non eri in grado di lavorare in quel reparto, non potevi farlo da nessun’altra parte. Se non ce la facevi – e molti non ce la facevano – ti facevano credere di non avere capacità. Ti demansionavano”.

Mentre Sara è a casa, a Forlì, scopre di essere stata trasferita dal Santa Chiara al vicino ospedale di Cles.  

“Sara doveva rientrare al lavoro il primo marzo. Mentre è in malattia, scopre che non è nei turni della settimana. Come? Con una telefonata alla segreteria: chiedeva a che ora doveva essere in ospedale lunedì. Già era malata, pensava di non valere niente, poi scopre questa cosa. Cosa poteva pensare? ‘Mi hanno licenziata, non mi vogliono più’. Chiede spiegazioni, la chiama il primario (Tateo, ndr). Avevano deciso di mandarla a Cles. Senza dirlo a lei. È lì che noi non abbiamo capito: trasferirla è stato un lavarsene le mani”.

A Cles si trova male? 

“Viene parcheggiata in un consultorio a dare farmaci. Attenzione, non sminuisco quel ruolo! Ma quando una persona subisce quello che ha subito Sara, quando le riempi la testa di cavolate sul tuo reparto dicendo che se non puoi lavorare lì non puoi farlo da nessun’altra parte, pensi che tutto il resto è nulla, che non vali niente”.

Così Sara si licenzia.  

“Dopo tre giorni”.

Il quattro marzo viene trovata solo la sua macchina.  

“Io non potevo sapere tutte queste cose finché non ho fatto domande precise agli operatori che lavoravano al Santa Chiara. Sono partita dai loro disagi personali per arrivare a mia sorella. Loro si sono aperti con me e hanno buttato giù un muro di omertà e silenzio. Perché Sara è stata vittima dell’omertà e del silenzio. Si è dimessa perché si sentiva sbagliata, inadeguata, incapace. Non ha cercato un capro espiatorio, un colpevole esterno. Non ha puntato il dito o scaricato la sua rabbia”.

Oggi i vertici di quel reparto sono indagati.  

“Giustizia deve essere fatta. Chi riveste un ruolo dirigenziale deve essere punito se non è capace. Noi abbiamo fatto solo una domanda: cosa è successo a Sara? Da questa domanda, banale, è nato tutto questo. È bastato raccogliere le prime cinque testimonianze spontanee. Mi auguro che presto ci sia un processo, siamo in attesa di saperlo”.

Sara poteva essere salvata? 

“Assolutamente sì. È la certezza più grande che ho, il senso di questa battaglia. C’è tanta rabbia legata a questo”.

Lei ha dei sensi di colpa?

“Quando Sara è venuta qua non l’ho riconosciuta. Era un’altra persona. Il burnout è un fuoco che brucia tutto in poco tempo. L’unico modo per farla uscire da quello stato era portarla in una clinica ma la nostra paura era che ci odiasse per tutta la vita e che succedesse qualcosa di peggio. Come poi è avvenuto. È impossibile non avere sensi di colpa. Ce li hanno i colleghi che l’hanno conosciuta da poco. I miei? Non averla bloccata di più, non avere avuto il tempo. Tornassi indietro la legherei, la fermerei fisicamente. Questo è il consiglio che darei oggi, perché questa battaglia è anche per gli altri, vorrei che avessero gli strumenti per intervenire e agire subito. Fare denuncia è importantissimo. Mi piacerebbe che il caso di Sara servisse a dare dignità a lei in primis, se la merita tutta. E a far sì che sua luce diventi luce per altri”.

Da quel 4 marzo, il corpo non è stato trovato.  

“È lì, in fondo al lago. Mi auguro che a febbraio-marzo la ricerchino. Mi fido del capitano dei carabinieri. Le persone che cercano gli scomparsi diventano parenti. Sono fiduciosa”.

 

Sara Pedri con sua sorella Emanuela 

 

 Le date della storia

4 marzo: la scomparsa 

Il 4 marzo una Volkswagen T-Roc viene trovata in località Mostizzolo a Cles, in provincia di Trento, nelle vicinanze del ponte che sovrasta il torrente Noce. Un luogo tristemente noto per i suicidi. Quella macchina è di Sara Pedri, 31 anni, ginecologa di Forlì: il giorno prima l’ex dottoressa del reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara si era dimessa dall’azienda sanitaria di Trento, dov’era arrivata il 16 novembre 2020. Si mette in moto la macchina delle ricerche.

12 giugno: il caso in Procura  

La famiglia di Sara Pedri, difesa dall’avvocato Nicodemo Gentile, presenta una memoria in procura: “Sara veniva verbalmente offesa sul posto di lavoro, lasciata per turni interi a non fare niente e definita incapace”. La sorella Emanuela dice: “Sara ci diceva che stava vivendo un inferno. È stata umiliata, derisa, discriminata. Penso abbia compiuto un gesto estremo”. Il procuratore di Trento, Sandro Raimondi, apre un fascicolo.

18 giugno: l’indagine interna  

L’azienda sanitaria trentina (Apss) apre un’indagine interna. I primi elementi escludono “collegamenti con i fatti accaduti nel contesto lavorativo”. Ma emergono le ombre su quel reparto: decine di operatori sanitari vogliono essere sentiti e la politica chiede un’indagine indipendente. Roberta Venturella, tutor di Sara durante la specializzazione a Catanzaro, chiede al ministero della Salute l’invio degli ispettori. Una testimone, collega di Sara, dice a “Chi l’ha visto”: “Ogni volta che andavo a lavorare pregavo di fare un incidente, rompermi le gambe, rimanere paralizzata”. Il 2 luglio vengono inviati gli ispettori ministeriali.

10 luglio: terremoto in ospedale 

Il 2 luglio il direttore dell’azienda sanitaria, Pier Paolo Benetollo, rimette il suo mandato. Cinque giorni dopo viene confermato alla guida ma il 10 luglio il manager lascia: “Ho riconfermato la mia volontà di dimettermi dall’incarico”. Nel frattempo cinque ginecologhe, assistite dagli avvocati, denunciano “l’incompatibilità ambientale” del primario di ginecologia, tornato in reparto dopo un periodo di ferie forzate dopo l’esplosione del caso. È solo l’inizio.

12 luglio: trasferito il primario 

Saverio Tateo, il primario di ginecologia del Santa Chiara, viene trasferito dopo 11 anni a seguito di una commissione interna che ha sentito più di 110 persone e dalla quale emerge “una situazione critica” in reparto. Stessa sorte per la sua vice, Liliana Mereu. Gli operatori sanitari hanno testimoniato un clima di “gravi tensioni, intimidazioni e vessazioni”. Tra il 2016 e il 2021 dal reparto di ginecologia se ne sono andati 12 medici, 3 infermieri e 47 ostetriche.

16 luglio: la difesa di Tateo

“Scriviamo nell’interesse e a tutela del dottor Saverio Tateo, vittima di una campagna diffamatoria” che si basa su “illazioni, menzogne e strumentalizzazioni”. Così scrivono gli avvocati del primario trasferito, Vincenzo Ferrante e Salvatore Scuto, che assicurano la piena collaborazione del professionista.

21 luglio: il procedimento disciplinare  

Ma intanto l’azienda sanitaria apre nei confronti di Tateo un procedimento disciplinare. Al centro delle verifiche, le condotte “vessatorie e umilianti” verso chi lavorava nel suo reparto.

10 agosto: la svolta 

I carabinieri del Nas ipotizzano il reato di maltrattamenti e chiedono alla procura di Trento di iscrivere nel registro degli indagati l’ex primario Saverio Tateo e la vice Liliana Mereu. Sono 14 le persone, tra medici e infermieri, che avrebbero subito vessazioni sul lavoro. Compresa Sara Pedri.

20 ottobre: indagati  

Tateo e Mereu sono indagati dalla procura di Trento.

8 novembre: licenziato  

L’ex primario di ginecologia e ostetricia del Santa Chiara, Saverio Tateo, viene licenziato al termine del procedimento disciplinare.

 

Sara con sua mamma 

 

Le parole di Sara

Il 14 dicembre, nemmeno un mese dopo il suo arrivo a Trento, Sara scrive: “Non mi sento all’altezza di quello che mi viene richiesto e sono terrorizzata”. Il primo marzo, tre giorni prima della sua scomparsa, manda un messaggio alla sorella Emanuela: “Non ne posso più Manù”. Nicodemo Gentile, presidente di Penelope (associazione nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse) è l’avvocato della famiglia Pedri. Dall’inizio segue questo caso. E a Repubblica dice: “La grandissima super testimone di questa storia è la messaggistica di Sara, che ci parla di quello che è successo. Sara non aveva motivo di togliersi la vita se non per il mobbing. C’è un prima e un dopo il suo arrivo a Trento. E questo ci dice con forza che qualcosa è successo in quella struttura. Anche prima del suo arrivo, in reparto esisteva un ambiente esplosivo, patogeno. Persone che avevano vissuto vessazioni e angherie”.

Le stesse persone che, dopo la scomparsa della 31enne, si sono fatte vive. Continua l’avvocato: “Come legale mi sono accorto che la vicenda di Sara rischiava di essere un’enorme bolla di sapone oppure in realtà nascondeva una pluralità di situazioni anche penalmente rilevanti che avrebbero sicuramente imposto a più livelli – giudiziario, politico, amministrativo – una riflessione molto attenta e provvedimenti rigorosi. Ci siamo resi conto che la famiglia è stata oggetto di una quantità veramente importante di informazioni, contatti spontanei da parte di una robusta molteplicità di soggetti, dai medici alle ostetriche. Volevano parlare. Usare il sacrificio di Sara come grimaldello. Parole dirette, forti, pesanti. Abbiamo raccolto in modo sistematico ogni valutazione”.

Grazie alla famiglia Pedri, ecco alcuni messaggi che Sara ha mandato – soprattutto alla sorella – tra il 14 dicembre e l’1 marzo. Parole che testimoniano il suo stato d’animo a Trento.

“Non mi sento all’altezza di quello che mi viene richiesto e sono terrorizzata. Sono lasciata sola a prendere decisioni, non è semplice. Per il momento ce la metto tutta e vado avanti…”.  

“Qua è dura. Pretenderebbero che stessi qua 12 ore tutti i giorni. Poi mi hanno consigliato di stare zitta e di non lamentarmi mai se voglio stare bene in questo posto, quindi ubbidisco e basta! Ieri però sono andata in crisi…non te lo nascondo”.  

 “Ho fatto incazzare la donna del capo in camera operatoria. Non sono riuscita ad aiutarla come volevo. Non avrò vita lunga qua”. 

 “Avranno pensato che la ‘terroncella’ andasse subito raddrizzata”. 

 “Non ho dormito neanche un minuto. È troppo grave per me non andare a lavorare domani. Non riesco a sopportare. Sono paralizzata a letto. Non sto in piedi” (21 febbraio: due giorni prima Sara aveva ricevuto un certificato di malattia).  

 “Ho paura, sono disarmata. E ho preso sempre le medicine, pensa te”  

 “Non ho scelta perché non vedo futuro là. Ma dovrò superare le conseguenze disastrose che arriveranno”.  

 “Ho paura di tutto ultimamente”.  

 “Sono stata sopraffatta dal peso della responsabilità e dal terrore di nuocere agli altri. Il terrore mi acceca. Non so se a Catanzaro non ho imparato niente. Ma se anche fosse che qualcosa l’ho imparato, non ho il coraggio di metterlo in pratica qua catapultata in un mondo così diverso. So che ho deluso tutti. Non ho saputo cavarmela questa volta…ed è proprio quando si diventa grandi. Non pretendo di essere capita, chiunque altro nella mia situazione si rimboccherebbe le maniche. Ma io sono senza forze e senza speranza, un giorno dopo l’altro”.  

“Volevo concluderla io la faccenda. Non farmi licenziare. Tutto qui. Mi sento in trappola contro me stessa”.  

 “Non ne posso più Manù” (1 marzo)

 

 

 

La collega di Sara: “In quel reparto un clima da Inquisizione”

“Ho subito insulti, maltrattamenti. Ancora oggi siamo tutti sfiniti psicologicamente. Sì, penso a Sara. Era una ragazza buona, sensibile. Amava il suo lavoro”. Per capire il clima che si respirava nel reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, bisogna parlare con un’operatrice sanitaria che chiameremo Stefania. Chiede di omettere il suo vero nome, di non scrivere la sua qualifica, di non scendere nei dettagli di quello che ha subito. Non per paura, ma per non essere riconoscibile. Perché con gli inquirenti questa donna ha già parlato.

Da quanto tempo lavora al Santa Chiara? 

“Diversi anni”.

Ha conosciuto Sara Pedri? 

“Sì, ho lavorato con lei per poco tempo. Una conoscenza superficiale, anche perché con il Covid era tutto più complicato. Ma l’ho vista soffrire”.

Perché soffriva? 

“Mi hanno raccontato gli episodi che le sono accaduti. Lei stessa mi diceva: ‘Sono incompetente’. Dopo appena un mese e mezzo ha cominciato a sentirsi insicura nella gestione dei pazienti, ci chiedeva qualsiasi cosa, aveva paura, era l’ombra di se stessa. In burnout, nel pallone. Questo sotto gli occhi di tutti. All’inizio non era così”.

Cosa subiva? 

“Vessazioni verbali. ‘Non capisci niente, non sai fare questo e quell’altro’, ‘Non è possibile che tu non ci sappia aiutare’. È stata maltrattata in sala operatoria, mi hanno raccontato che è stata colpita con un ferro sulle mani a mo’ di bacchettata a scuola”.

Qual era il clima in reparto? 

“Un clima da inquisizione, di paure, angosce. Non eri più sicuro di te stesso. Non ti facevano fare le cose. Ogni decisione era sbagliata e non riuscivi a prenderne più”.

A causa del primario Tateo e della sua vice Mereu?  

“Erano gli artefici di quel clima. Avevano i loro fedelissimi, magari a loro volta sottoposti allo stesso trattamento in passato. Perché andavano a cicli, ti prendevano di mira. I più deboli cercavano protezione: una volta ottenuto, non si comportavano allo stesso modo dei vertici, al massimo facevano la spia”.

Lei cosa ha subito? 

“Maltrattamenti e insulti che mi hanno portato a una grave insicurezza personale e professionale. Solo oggi mi rendo conto di cosa ho subito”.

Ne patisce ancora le conseguenze? 

“Faccio incubi. Me li sogno di notte, tutti e due, che tornano”.

Ricorda un episodio particolarmente brutto? 

“Io ricordo quando lei ti urlava a due centimetri dalla faccia”.

Si è mai chiesta perché si comportavano così? 

“Penso per un delirio di onnipotenza”.

Come ha fatto a resistere? 

“Chi è rimasto non aveva altre possibilità per via della famiglia, dei figli, del fatto che non ci fossero molti altri ospedali. Andavi avanti per inerzia, per dovere, con angoscia. Stavi male. Molti si sono licenziati”.

Ma non era un reparto di eccellenza? 

“Era un buon reparto, con grandi numeri. Loro due sapevano operare, ovviamente. E noi comunque trattavamo bene le pazienti: ci può stare che per loro andasse tutto bene. Ci sforzavamo di sorridere, ma ci veniva da vomitare”

Cos’ha provato quando ha saputo di Sara? 

“Dolore. Quando ho letto dov’era stata trovata la macchina ho capito subito cosa aveva fatto. Penso che tanti fattori abbiano contribuito. Era giovane, appena specializzata. Voleva dimostrare che anni di studio erano valsi a qualcosa. Era lontana da casa, c’era il Covid, non vedeva le amiche, non poteva uscire con le colleghe…”.

E dopo la sua scomparsa? 

“Ho detto basta. Basta. Abbiamo toccando il fondo. Alcuni si chiederanno: perché solo dopo? No, c’era chi aveva già parlato”.

Quando?  

“Posso confermare che nel 2019, dunque prima di Sara, alcuni medici avevano comunicato delle cose alla direzione sanitaria dell’ospedale e all’Ordine dei medici. Erano stanchi, volevano parlare ma non succedeva nulla. Chi parlava aveva paura”.

La scorsa primavera siete tornati a parlare.  

“Siamo tornati all’attacco. Eravamo pronti alle dimissioni in blocco, almeno 4-5. Poi è scoppiato il caso sui giornali”.

È stata aperta anche un’indagine interna.  

“Non so chi abbiano sentito, sicuramente non me. E infatti l’indagine fatta bene, quella con gli ispettori inviati dal ministero, ha portato a delle prove”.

A Sara ci pensa? 

“Sì. Era una ragazza buona, sensibile, con sentimenti genuini. Amava il suo lavoro, raccontava che aveva fatto tanta fecondazione assistita, era felice di poter dare figli a famiglie che non potevano averne”.

Oggi la situazione è migliore? 

“Il clima è diverso ma le cose non migliorano in un giorno. Non è facile. Chi era stato definito incapace sta facendo un percorso per riprendere professionalità e sicurezza. Siamo tutti sfiniti psicologicamente. Non è una passeggiata, non è finita. Ma almeno non ho più angoscia”.

 

L’inchiesta

Nella sua lettera di dimissioni, Sara Pedri lo definì “sovrano illuminato”. Da undici anni, era il primario del reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Santa Chiara di Trento. Saverio Tateo, 59 anni, originario di Bari e milanese d’adozione, oggi è indagato dalla procura per maltrattamenti. Dopo un procedimento disciplinare, la sua azienda sanitaria lo ha licenziato. In parte diversa la sorte della sua vice e braccio destro Liliana Mereu, nel mirino dei pm per lo stesso reato di Tateo ma trasferita a Catania.

Quello guidato dai due professionisti – che online vantano lunghi curriculum, pubblicazioni e numeri di interventi eseguiti in carriera – era considerato un reparto d’eccellenza. Ma dietro questa etichetta, per le accuse, c’erano molte ombre. Alcune dolorose. Per la commissione interna dell’azienda sanitaria di Trento, che questa estate aveva inizialmente allontanato i due camici bianchi, da 110 testimonianze “emergono fatti oggettivi e una situazione di reparto critica”. A partire da un turnover non indifferente: tra il 2016 e il 2021 da quelle corsie sono andati via 12 medici, 3 infermieri e 47 ostetriche.

Dalle pazienti, Tateo viene descritto come “un uomo meraviglioso”. Chi lo ha conosciuto dal punto di vista professionale, lo definisce un bravissimo chirurgo e un ottimo primario. Ma gli ispettori del ministero, nella loro relazione finita sul tavolo dei pm, sottolineano episodi di mobbing e di ostruzionismo sul lavoro, insulti ai colleghi davanti ai pazienti e la loro esclusione dalla sala operatoria con “scopi mortificatori”. Lo scorso 16 luglio i legali di Tateo, Vincenzo Ferrante e Salvatore Scuto, hanno definito l’ex direttore di ginecologia “vittima di una campagna mediatica di inusitata forza diffamatoria che, sulla base di illazioni, menzogne e strumentalizzazioni, ha inteso e intende mettere in relazione la dolorosa vicenda della scomparsa della dottoressa Sara Pedri con il ruolo e la funzione rivestita dal dottor Tateo”. Gli avvocati escludono “qualsiasi nesso di casualità” tra la scomparsa di Pedri e il suo ruolo.

Nei confronti di Mereu, intanto, è stata aperta un’altra inchiesta per truffa e falso: nel marzo del 2020 avrebbe costretto due colleghi (a loro volta indagati per falso) a firmare un ricovero nei suoi confronti che in realtà non sarebbe mai avvenuto. “Fantasie e maldicenze”, ha detto il suo avvocato Franco Rossi Galante al Corriere del Trentino.

Sorgente: Sara Pedri vessata e umiliata, così si è spenta in tre mesi. I suoi messaggi: “Ho paura, non avrò vita lunga qua” – la Repubblica

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