0 43 minuti 2 anni

I pronto soccorso si svuotano di medici e la loro crisi è diventata una polveriera: sociale, sanitaria e umana

La prima linea della nostra risposta sanitaria, quella della medicina d’urgenza, è sul punto di cedere. I pronto soccorso italiani contano su forze sempre più esigue e potrebbero rapidamente collassare. Anche perché non esiste un’altra specialistica medica in cui si registri lo stesso diabolico mix di problemi. A cominciare dalle difficoltà di bilancio del comparto sanitario e dalla storica e cronica inadeguatezza del numero di posti disponibili nelle scuole di specializzazione. Detto questo, c’è qualcosa che sta accadendo che non ha eguali nel panorama sanitario del Paese: chi lavora nei dipartimenti di emergenza scappa. E scappa verso impieghi meno gravosi in termini di carichi di lavoro e più economicamente remunerativi. Una fuga ancora più allarmante perché accompagnata da un calo di vocazione nei giovani, che dopo la laurea in medicina scelgono ogni possibile percorso di specializzazione purché li tenga lontani dai pronto soccorso. A dispetto – come pure il ministero della Salute ha fatto – dell’aumento degli importi delle borse di studio e dell’incremento dei fondi destinati alle nuove assunzioni e alla maggiorazione delle indennità. Nulla sembra fermare la grande fuga, né rallentarla. Anche perché – come dicono da Simeu, la società scientifica dell’emergenza che ha portato anche in piazza la sua protesta – la crisi è legata a una inadeguata organizzazione del lavoro. “Va rinforzato il territorio, deve esserci un maggiore filtro. Altrimenti, nei pronto soccorso continueranno ad arrivare troppi pazienti che potrebbero e dovrebbero essere curati altrove, portando la pressione sulle strutture e chi ci lavora oltre ogni soglia sopportabile”.

 

 

 

Numeri

Come spesso accade, conviene partire dai numeri. Dal primo e più impressionante: 21 milioni. Si tratta degli interventi registrati ogni anno nei pronto soccorso (il dato è leggermente calato nel 2020 per la pandemia). Ventuno milioni, dunque. Per dirla altrimenti, è come se un terzo degli italiani si presentasse una volta ogni dodici mesi alla porta dell’ospedale. Un altro numero: in Italia, lavorano 12mila medici di pronto soccorso, vale a dire 4mila in meno rispetto a quelli che sarebbero necessari. La normalità è quella dunque di reparti che assicurano un servizio con un quarto dell’organico ritenuto necessario. E parliamo di una media, perché, dice il presidente di Simeu, Salvatore Manca, “si arriva a punte di carenza di organici che sfiorano il 50 o il 60%”. Il dato sui vuoti di organico appare ancora più drammatico se si osserva il dato relativo al calo dei medici di urgenza degli ultimi due anni: 2mila. Il che significa che la metà del totale delle carenze si è accumulata di fatto in coincidenza della pandemia Covid.

Ora, se si osserva il numero degli specializzandi che termineranno il percorso di formazione da qui al 2025, collocandosi dunque nel bacino potenziale di quanti potranno essere assunti, e lo si incrocia con quello di quanti, nello stesso lasso di tempo, andranno in pensione, si scopre che gli organici subiranno un ulteriore diminuzione di organico di 4mila unità. Una catastrofe, insomma. La simulazione, elaborata dal sindacato degli ospedalieri Anaao, documenta come nessun’altra disciplina medica o chirurgica si trovi nella stessa situazione.

Negli ultimi due anni, il numero dei posti nei corsi di specializzazione di tutte le discipline è aumentato grazie all’intervento dei ministeri alla Salute e all’Università. Quelli per l’emergenza urgenza quest’anno erano 1.100. Ma chi si aspettava un’adesione alta si sbagliava. I giovani non hanno gran voglia di lavorare in pronto soccorso, forse anche perché da anni sentono le lamentale di chi è già dentro e hanno capito quanto sia pesante. E non è difficile prevedere che, adesso che la protesta è esplosa, la crisi di vocazioni, chiamiamola così, potrebbe persino aumentare. Come dimostra per altro la circostanza che 520 posti disponibili in specializzazione sono rimasti scoperti. “A nessuno capita di non riempire tutti i corsi, solo a noi e agli anestesisti. Si tratta di un segnale chiaro”, commenta Andrea Fabbri, dell’ufficio studi di Simeu. Lui dirige il pronto soccorso di Forlì, e conosce bene il problema delle carenze. “A lavorare con me dovrebbero esserci 34 medici, invece sono 22. Se non si fa qualcosa, a questo ritmo si prosciugheranno i reparti”.

 

 

 

Crisi di vocazione

Malpagati, maltrattati e soprattutto formati male. Per Aurelio Puleo, direttore del pronto soccorso di Villa Sofia a Palermo, c’è questo e tanto altro dietro la crisi di vocazioni che minaccia di estinzione la figura del medico di pronto soccorso in Italia. Le ragioni sono da cercare nel deficit formativo, ma anche nei tagli al sistema pubblico degli ultimi 20 anni che hanno radicalmente trasformato il lavoro in prima linea.

“Le motivazioni di questa mancanza di vocazione sono diverse – dice Puleo – Alcune sono rintracciabili nella cronaca di questi giorni. Mi riferisco per esempio ai danneggiamenti all’ospedale Civico di Palermo. Inutile negare che i fenomeni di aggressione e il rischio di contenziosi medico-legali scoraggiano i giovani. Ma ci sono ragioni più antiche e responsabilità da parte di chi ha governato la sanità negli ultimi 20 anni”. Puleo prova a metterle in fila. “Penso innanzitutto alla programmazione dell’accesso alla facoltà di Medicina e chirurgia e alle scuole di specializzazione. C’è un imbuto formativo che ha prodotto una gravissima carenza di specialisti. Solo da poco si è deciso di aumentare le borse per l’emergenza-urgenza. Ma il problema non si risolve in un anno. Poi c’è il tema del definanziamento del sistema sanitario, che ha limitato le possibilità assistenziali su tutto il territorio e che ha reso il pronto soccorso l’unica porta d’accesso all’assistenza e snaturandone la missione”. Insomma, la crisi di vocazione non sarebbe da rintracciare nella percezione che uno studente di medicina ha della figura del medico. “Chi vuol fare il medico pensa in primo luogo al pronto soccorso. In fondo salvare vite è la quintessenza della vocazione medica. Ma per molti anni non c’è stata una formazione specifica e abbiamo sempre dovuto attingere ad altre professionalità, soprattutto medicina interna e chirurgia generale. Quando i giovani si iscrivono in Medicina non sempre hanno le idee chiare, ma il settore dell’emergenza è sempre stato emotivamente attrattivo. Certo, se si guadagna poco, se non c’è la possibilità di fare attività privata, se non si hanno le stesse possibilità di carriera di altri settori e in più se fioccano aggressioni e denunce, anche i più motivati alla fine si scoraggiano. Così la disciplina muore”.

Anche perché il lavoro del medico di pronto soccorso, nel frattempo è cambiato. Ascoltiamo ancora Puleo. “Il pronto soccorso è diventato luogo di cura per tantissimi pazienti che, trovando chiuse altre porte, si rivolgono a noi in maniera inappropriata. L’area dell’emergenza, lo dice il termine, è luogo elettivo di cura per le patologie dove il fattore tempo è determinante, come ictus, infarto, trauma, sepsi, insufficienza respiratoria e cardiaca. Ecco perché l’utilizzo inappropriato di un pronto soccorso crea disservizi, sovraffollamento e quel clima di ostilità e sfiducia alla base di fenomeni di aggressione verbale, fisica e medico legale. Perché anche la denuncia facile è vissuta dai medici come una forma di aggressione che spinge verso specialità ritenute più tranquille e remunerative”.

 

L’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale di Padova 

E tuttavia non si capisce perché oggi questo contesto sfavorevole pesi più di ieri. “Perché siamo di meno, siamo più anziani e più stanchi. In queste condizioni è più difficile fronteggiare il sovraffollamento. Abbiamo enormi difficoltà ad assicurare il turn over che negli anni ha subito una accelerazione sia per quota 100, sia perché molti medici hanno anticipato la data della pensione per lo stress lavorativo. Le selezioni per reclutare personale sia a tempo determinato che indeterminato vanno spesso deserte o si presentano meno partecipanti dei posti disponibili. In Sicilia, i due concorsi di bacino per assumere oltre 200 medici non solo non hanno colmato le lacune, ma anzi hanno causato un travaso di personale dalle aree di emergenza periferiche a quelle centrali. Inoltre, da almeno 10 anni vengono tagliati posti letto e personale. E questo ha trasformato la natura del pronto soccorso. Spesso ci troviamo a gestire l’intero decorso della malattia del paziente in area di emergenza. Una distorsione che causa sovraffollamento e delude le legittime aspettative del cittadino che viene in ospedale per trovare soluzione immediata ai suoi bisogni e invece aspetta per ore, a volte per giorni, al pronto soccorso. Insomma, se devo pensare a delle soluzioni penso che il riconoscimento dell’indennità di pronto soccorso, pur segno di attenzione, non sia una misura sufficiente. Serve una norma per il riconoscimento dell’attività usurante e bisogna favorire l’afflusso di specializzandi di altre branche, introducendo per esempio l’obbligo di un periodo di apprendistato in pronto soccorso. È la proposta che Simeu (società italiana di medicina di emergenza urgenza) formalizzerà al ministero. In area di emergenza non può lavorare chiunque, sarebbe un passo indietro di oltre 20 anni. La formazione è un punto cruciale nelle strategie dei prossimi anni”.

 

 

Vita da ospedale

Sindacati e società scientifiche sottolineano che lo stipendio di chi fa anche 7 notti al mese di lavoro intenso, senza respiro, dentro un reparto di emergenza, è pari a quello di colleghi il cui impiego prevede solo visite specialistiche, e nella fascia diurna. O anche di chi lavora in altri reparti, e fa sì le notti, ma in numero minore e soprattutto molto meno impegnative.

Nessuno ha lo stesso carico di attività nel corso delle 24 ore. I medici neoassunti guadagnano circa 2.800 euro netti al mese. Lo stipendio, poi, aumenta grazie agli scatti di anzianità dopo 5 e dopo 15 anni. Per alcuni dei tanti che non diventano primari, ci sono incarichi professionali e organizzativi, che permettono di guadagnare un po’ di più. I turni sono tre, dalle 8 alle 14, dalle 14 alle 20 e dalle 20 alle 8. Questo sulla carta, perché nessuno se ne va appena scocca l’ora di uscita. Spesso ci sono pazienti da sistemare, che richiedono un impegno extra. E le carenze possono portare a turni dalle 8 alle 20 oppure a rientri dopo la notte, in quello che dovrebbe essere un giorno di riposo. Anche i weekend sono consacrati al lavoro. “Tre fine settimana su quattro sono impegnati dai turni che, alternativamente, cadono o il sabato notte, o la domenica mattina o la domenica notte”, spiega Gianfranco Giannasi, che dirige il pronto soccorso dell’ospedale Torregalli a Firenze. E per gli infermieri, a parte qualche differenza di orario nei turni, il problema dei rientri, delle notti e dei week end è lo stesso. Con uno stipendio che parte da circa 1.500 euro. Che arriva a 1.800 con 30 anni di anzianità.

 

 

Una finestra sul mondo

C’è anche qualche entusiasta. Giorgio Costantino dirige da tre anni e mezzo un grande pronto soccorso, quello del Policlinico di Milano. Qualche difficoltà con l’organico ce l’ha, ma non se ne lamenta particolarmente. “Amo questo lavoro per vari motivi. Intanto permette di entrare in contatto con persone di tutti i tipi, anche diverse da quelle che incontri quotidianamente fuori da qui”. Il primario definisce l’emergenza “una finestra sul mondo, sia dal punto di vista medico che sociale. È anche un osservatorio, si vedono i cambiamenti della società. Osservi l’arrivo di una crisi economica, capisci come il Covid ha colpito certe famiglie, scopri che ci sono persone che abitano in 9 in due locali”. Anche molti dei giovani che si iscrivono alla scuola di specializzazione hanno motivazioni particolari. “Abbiamo chiesto a chi è al primo anno perché ha fatto questa scelta – dice Costantino – Ebbene, poco meno della metà dei giovani colleghi hanno detto che vogliono fare questo lavoro proprio perché ha una forte impronta sociale”.

Poi ci sono gli aspetti più sanitari, e anche questi sono stimolanti. “Qui si pratica la clinica, si fanno diagnosi e si danno terapie e da un certo punto di vista c’è molta meno burocrazia rispetto ad altri luoghi. Poi stratifichiamo il rischio”. Significa capire, al di là del problema contingente, cosa rischia in futuro un determinato paziente a seconda dei suoi problemi. “Questo rende la medicina d’urgenza una cosa molto intelligente. Bisogna capire se quel malato ha bisogno di restare in ospedale e indirizzarlo al reparto adeguato, cosa non sempre scontata. Oppure ci si deve prendere la responsabilità di rimandarlo a casa, indicando non solo la terapia da seguire ma anche eventuali esami o visite dagli specialisti. Insomma, capita di costruire un percorso complesso di controlli e accertamenti”.

E poi, in pronto soccorso, si prendono continuamente decisioni. “Facciamo molte più scelte e spesso molto più velocemente, rispetto a un reparto normale. Non solo riguardo alla cura ma appunto anche su quale strada far prendere al paziente”.  Poi i problemi ci sono, e andrebbero fatte delle riforme, ad esempio bisognerebbe permettere ai medici di passare più facilmente da un reparto all’altro e creare la possibilità di avere un curriculum universitario anche per i medici di urgenza. Ma Costantino il suo lavoro non lo cambierebbe con nessun altro.

 

10mila infermieri in meno

Gli infermieri dell’emergenza sono trentamila, da Milano a Palermo. Ma ne servirebbero diecimila in più. Lavorano in pronto soccorso e nelle centrali operative, dirigono il traffico nelle sale d’attesa strapiene di pazienti, salgono su ambulanze e elicotteri, contribuiscono a salvare vite. Sono gli infermieri dell’emergenza. Una categoria che, al pari di quella dei medici, soffre per lo stress, i turni di lavoro, le aggressioni.

“Hanno una grande competenza. Che spesso, però, non si traduce in un riconoscimento”, dice Massimiliano Sciretti, presidente dell’Ordine degli infermieri di Torino, consigliere nazionale della Fnopi, la federazione di categoria. E anche per questo la fuga dai pronto soccorso riguarda anche loro. “Tutto il personale è sottoposto a grosse pressioni e stress – continua Sciretti – senza alcun riconoscimento specifico in termini di valorizzazione, anche economica. Per questo gli operatori tendono, appena possibile, a chiedere di essere spostati in altri servizi dove non ci sono, tra l’altro, fenomeni di violenza. In alcuni contesti c’è chi lavora in condizioni di paura. Il grosso problema dei pronto soccorso è quello del sovraffollamento, con un numero di pazienti molto elevato da ricoverare. Secondo gli standard definiti a livello nazionale, entro sei ore ci dovrebbe essere la disponibilità del posto letto e in pochissime realtà questo si verifica”.

Il ruolo degli infermieri cresce sempre di più e negli ultimi anni è stato anche al centro di battaglie politiche. Emblematico il caso dell’Emilia-Romagna. Nel 2018, l’ex assessore regionale alla Sanità Sergio Venturi venne radiato dall’Ordine dei medici – la pena disciplinare più alta per un camice bianco – per una delibera che regolava la presenza degli infermieri da soli a bordo delle ambulanze. Una punizione esemplare che venne poi ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale. Ma la vicenda alzò il velo sulle competenze di questi professionisti”.

 

Il racconto di Gabriella Aguglia, dell’ospedale Civico di Palermo

 

Perché si sceglie di lavorare nelle emergenze e perché si decide di gettare la spugna. Lo sfogo della dottoressa Aguglia, dirigente medico del pronto soccorso dell’ospedale Civico di Palermo. Intervista di Giusi Spica

 

Chi non molla

Sauro Canovi, 63 anni, ha trascorso più della metà della sua vita nel pronto soccorso del Sant’Orsola di Bologna come infermiere. Ha vissuto le trasformazioni del suo lavoro: “Quando arrivai, dovevamo dare lo straccio e pulire la guardiola. Nel tempo siamo riusciti a inventarci una figura nuova. No, non sono un infermiere in fuga dal pronto soccorso. Non so il perché. Forse non me ne sono mai andato perché ho sempre cercato di migliorare le cose”. Canovi ha un ruolo fondamentale: è un “infermiere di processo”. In altre parole, è lui che stabilisce quanto un paziente deve aspettare prima di essere visto, in base a precisi parametri. Che non sempre vengono compresi. “Partiamo da un presupposto: non devi arrabbiarti con la gente che viene e ha bisogno. Anzi, tu sei lì proprio perché la gente viene, altrimenti non esisteresti. La responsabilità dell’attesa è dell’infermiere. Stabilisce quanto tempo il paziente deve aspettare. Può entrare al volo, in base ad alcuni parametri e all’esperienza, se è a rischio, se è fragile o grave. Ma capita purtroppo il paziente che aspetta sei ore. In questi casi cerco di parlare, di spiegare. Il problema è la scarsità di personale. Noi abbiamo picchi di 35 persone che arrivano in un’ora a fronte di 2-3 infermieri in servizio”. Oggi Canovi fa formazione ai nuovi arrivati: “Ai giovani dico: non state dietro a un vetro come gli impiegati, dicendo ‘avanti il prossimo’. Per evitare i conflitti, uscite, chiedete qual è il problema”.

Già, perché nei reparti di emergenza i giovani infermieri arrivano. Nonostante tutto, sono entusiasti. Francesco Santili, 35 anni, lavora nel pronto soccorso del Maggiore di Bologna: “Sono qui dal 2015, sono arrivato dal Molise. Ho deciso volontariamente di stare in pronto soccorso perché la formazione che si può avere non la trovi in nessun altro reparto. È un luogo dinamico, quello giusto per me. La fuga? È un fenomeno che vediamo. Il problema principale è che c’è un tipo di responsabilità maggiore a livello di professione che non si rispecchia col salario. In sintesi: stesso salario, più responsabilità. In altri reparti non è così. Quindi una persona che non vuole avere problemi nella vita non viene a lavorare in pronto soccorso. Fisicamente è faticoso, è un posto pieno di pazienti che arrivano di giorno e di notte. Quando esco sono stanco ma soddisfatto di aver dato il mio contributo”. La sua collega Rosaria Galano di anni ne ha 28: “Ho cominciato nel 2017, sono cresciuta tantissimo. La fatica c’è, certo, soprattutto perché è un lavoro dove non ci si ferma mai e siamo sempre sull’attenti, con le antenne puntate, concentrati. Ma non cambierei assolutamente reparto”. Entrambi raccontano delle aggressioni. “Ne ho subita qualcuna verbale, dovuta ai lunghi tempi di attesa che ci sono per chi non ha urgenza – dice Santili -. Ne abbiamo avute molte di più negli anni precedenti, poi è stato implementato il servizio di guardia e la situazione è migliorata un po’ ma ce ne sono ancora”.

 

Ospedale Maggiore di Bologna: chi resiste nonostante tutto

 

Una notte nell’ospedale Maggiore di Bologna al fianco di medici e infermieri. Video di Rosario Di Raimondo

 

Il 118 e i precari dell’emergenza

Chi ci soccorre quando chiediamo aiuto al 118? La risposta non è scontata e varia in ragione delle latitudini. A volte, persino all’interno della stessa regione. Può arrivare un medico, un infermiere, un volontario che ha fatto un corso di specializzazione. Può salvarci un operatore che ha meno diritti del suo collega che lavora in pronto soccorso. Un precario dell’emergenza. Di certo arriva qualcuno che a bordo di un’ambulanza o un’automedica fa un mestiere duro. Che deve sapere come agire davanti a un incidente stradale o un infarto, un’alluvione o un terremoto. Un mondo, come tanti altri, che in Italia è a macchia di leopardo.

“Ci troviamo in una situazione nella quale il personale medico dell’emergenza territoriale 118 è sostanzialmente di tremila unità. Di queste, 2.700 non hanno un rapporto di lavoro subordinato ma di convenzione, come quello dei medici di medicina generale”, dice Emanuele Cosentino, medico di Catania e responsabile nazionale della Fismu. Cosa significa? “Il lavoro convenzionato non prevede la tutela di una serie di diritti come ferie e malattia. La stessa maternità è solo parziale. Poi ci sono gli infortuni sul lavoro, non poco frequenti, ma non facciamo parte dell’Inail. Negli anni, partecipiamo a corsi specifici che ci paghiamo noi. Perché puoi trovarti davanti a un incidente con un ferito che ha più traumi, o in situazioni climatiche e ambientali di ogni tipo, per non parlare del Covid: noi siamo in prima linea. Dobbiamo aggiornarci e addestrarci a tutte le manovre di rianimazione e pur non essendo specialisti abbiamo appreso tecniche per intubare un paziente in strada o fare un drenaggio toracico”. Eppure, “abbiamo scarse garanzie, poche tutele nonostante le difficoltà e la delicatezza del lavoro. Che i giovani non accettano più di fare. Ci sono difficoltà nel reperire il personale medico. Come nei pronto soccorso, se non peggio. Sì, si può dire: siamo i precari dell’emergenza”.

 

 

Ambulanze, o di un mondo a parte

Rodolfo Ferrari, presidente della Simeu dell’Emilia-Romagna, direttore del pronto soccorso di Imola, definisce il 118 “un microcosmo a parte, che deve gestire l’emergenza vera. Ma la situazione in Italia è a macchia di leopardo. Ci sono sistemi che puntano sul 118 con assistenza quasi esclusivamente infermieristica, una scelta più legata alla carenza di personale che non a una strategia. Ci sono infermieri preparatissimi, ovviamente, ma la scelta di rinunciare ai medici è legata alla difficoltà di reperirli, così come avviene per gli infermieri”.

Sul piano contrattuale, “ci sono differenze enormi. A Imola puoi avere gli stessi medici che fanno 118, pronto soccorso, medicina d’urgenza, terapia semi intensiva. Ci sono medici in convenzione sotto diverse forme, nella mia regione avremo dieci scenari diversi. Anche i percorsi di formazione sono variegati”. E così “in ambulanza ci puoi trovare di tutto: i volontari, persone preparate e formate; le ambulanze infermieristiche; e in appoggio può arrivare l’automedica. La scelta su quale tipo di mezzo inviare la fa la centrale operativa in base alla gravità dei casi e in base alle risorse disponibili”. Ecco, le risorse. Bastano? “I risultati dicono che i tempi di intervento sono garantiti”. Ma è un fatto che in alcune realtà, dove c’era un’ambulanza 24 ore su 24, adesso c’è per dodici ore. “O dove prima c’era un’automedica per un certo numero di abitanti, ora le auto sono molto più spalmate sul territorio”. E quindi il bacino di popolazione da assistere è aumentato”. Oggi si parla molto di riforma del 118. Per Ferrari significa che “bisogna ripensare l’organizzazione del sistema in un’ottica di vera rete. Bisogna rendere omogenei i contratti, i percorsi di formazione e distribuzione sul territorio: tutti devono ricevere lo stesso tipo di assistenza. È una questione di equità, quantitativa e qualitativa”.

Non avrebbe mai immaginato che sarebbe iniziata così. Valentina Chiarini, 34 anni, medico di rianimazione e emergenza territoriale dell’Ausl di Bologna, lavora in automedica e in elisoccorso. Si è specializzata nel dicembre del 2019, ha iniziato a lavorare nel gennaio 2020. Sì, un mese prima che scoppiasse la pandemia. “Ho visto il Covid nelle case delle persone. Anche per noi era tutto disorientante, spaventoso. Ricordo che quei pazienti erano attoniti, smarriti. I famigliari non sapevano come accoglierci, come comportarsi nei nostri confronti. Ricordo le persone giovani che morivano a casa, è stata dura. Un mese prima era impensabile”. Chiarini questo lavoro lo ha scelto, desiderato, ottenuto. Le piace quando alla “calma piatta” si alterna “l’adrenalina”. Le pesano i momenti più duri: “A volte ti senti inutile, pensi di fare l’eroe con l’automedica ma in realtà in poche situazioni puoi fare la differenza. Forse l’aspetto più difficile in assoluto è interfacciarsi con i contesti di disagio più disparato quando entri nelle case delle persone: vedi povertà, solitudine, a volte violenza. E diventa pericoloso anche per noi. Sì, anch’io vedo il rischio della fuga dall’emergenza. I rischi di questo lavoro non sempre sono riconosciuti da tutti. Anche da parte di chi chiama l’ambulanza. E questo forse allontana i professionisti, che si sentono poco gratificati”.

 

Manifestazione di medici e infermieri di pronto soccorso in piazza Santi Apostoli. Roma 17 novembre 2021 

 

 

Pazienti

Dopo i mesi più bui della pandemia e la grande paura di andare in ospedale per patologie diverse dal virus, oggi si registra un’inversione di tendenza. Nel 2020, c’è stato un calo degli accessi, ma il 2021 sta già presentando un conto salato. Dietro al boom della domanda c’è una semplice, quanto spaventosa equazione. Lo scorso anno tutti gli sforzi del personale sanitario si sono concentrati nella lotta al nuovo virus. E le visite, gli esami specialistici, i check-up, gli interventi programmati, la prevenzione sono andati virtualmente in stand-by, a scapito dello stato di salute generale delle persone. Sono i danni collaterali della pandemia, quel buco da decine di milioni di esami diagnostici e visite specialistiche (52 milioni, secondo l’Agenas, Agenzia sanitaria delle Regioni) perse nel 2020. E oggi, i nodi tornano al pettine. “In questi mesi ho visto arrivare persone in condizioni davvero drammatiche. Tumori trascurati divenuti metastasi, cronici riacutizzati – spiega Giulio Maria Ricciuto, direttore del dipartimento di emergenza dell’ospedale Grassi di Ostia – Ma arrivano anche i casi meno gravi, perché di fatto siamo gli unici in grado di garantire le cure in qualsiasi momento, 24 ore su 24, 365 giorni l’anno”.

Le carenze della sanità territoriale, che spingono un maggior numero di persone a varcare la porta di un ospedale, si possono leggere anche attraverso un altro dato. “Su 100 accessi al pronto soccorso, il numero di effettivi ricoveri è del 13/14% – spiega Salvatore Manca di Simeu – anche aggiungendo un altro 10%, costituito da pazienti che poi non vengono ospedalizzati, possiamo affermare che il 70% degli accessi, a livello nazionale, potrebbero essere gestiti fuori dalla rete di emergenza, se solo la medicina territoriale funzionasse a dovere”. Ad essere diminuito, nella percezione dei primari, è anche il fenomeno degli accessi impropri, ossia l'”abuso” del pronto soccorso per ottenere prestazioni sanitarie gratuite nell’immediato e non aspettare magari mesi per l’assistenza ordinaria sul territorio. “Rispetto agli anni passati i codici bianchi, quelli che storicamente nascondono il fenomeno dell’inappropriatezza, si sono ridotti tantissimo”, spiega Maria Pia Ruggieri, primaria dell’ospedale san Giovanni Addolorata di Roma. “Trovo che sia comunque sbagliato, in particolare in un momento delicato come questo, parlare di accessi “impropri” – prosegue – per un medico di pronto soccorso ogni accesso è una richiesta di salute, e nasconde la disperazione di un cittadino. E comunque un codice bianco “improprio” si apre e si chiude in 15 minuti”.

 

 

 

Boarding

L’incubo di medici, infermieri e malati si chiama “boarding”, termine inglese che individua l’attesa in barella di un letto libero in un reparto. Attesa che può durare giorni. “Noi medici di urgenza siamo attanagliati dall’incubo del boarding”, dice Maria Pia Ruggeri. Il boarding è un limbo, nel quale si ritrovano i pazienti stabilizzati, ma in attesa di ricovero o trasferimento. E ad alimentarlo è la mancanza di posti letto per acuti nei reparti, con il conseguente sovraffollamento nelle sale dell’emergenza-urgenza, il blocco delle ambulanze all’esterno, che a loro volta diventano letti temporanei. Le linee guida ministeriali sono chiare: “Il tempo di permanenza in pronto soccorso di un paziente destinato al ricovero non deve superare le 8 ore dal momento della presa in carico, per evitare che l’eccessiva attesa di ricovero determini ricadute negative sull’organizzazione ed un aumento del rischio clinico”. Come “ampiamente riportato in letteratura”, precisa il ministero della Salute.

Peccato, tuttavia, che ad una corretta teoria non corrisponda una conseguente prassi. Nel girone del boarding, che fino a pochi anni fa era un fenomeno specifico della Regione Lazio e ormai si è diffuso a macchia d’olio, ogni giorno si ritrovano migliaia di malati, “parcheggiati” in barella, senza cuscino e a rischio caduta, appoggiati in corridoi che si trasformano in reparti “fantasma”. Qui, i pazienti stazionano per un tempo che può andare dalle 24 ore, nei casi più fortunati, fino alla settimana. Accade anche che un paziente venga dimesso direttamente dal pronto soccorso, senza mai essere stato trasferito in un reparto, per evitargli un’attesa sine die. “Il boarding è un insulto alla dignità sia dei pazienti che del personale – spiega Fabio De Iaco, primario dell’ospedale Martini di Torino – Impegna tra il 30 e il 40% delle risorse dei nostri reparti, rendendo di fatto impossibile garantire un’assistenza adeguata. Non ci può essere una soluzione immediata, ma solo il combinato disposto di due misure: l’aumento del personale e quello di posti letto ogni mille abitanti, che da 3 deve passare come minimo a 4. Ma soprattutto ci vuole un cambio di mentalità: il pronto soccorso non può supplire alle mancanze dell’assistenza sul territorio e a quelle degli altri reparti”.

 

 

 

Rabbia e aggressioni

Nei reparti d’emergenza, la rabbia che si fa violenza comincia, statisticamente, a non essere più un’eccezione. Quattro assalti in queste ultime due settimane, tanto per dire. L’ultimo, al “Civico” di Palermo, messo a ferro e fuoco dai parenti di una donna morta per infarto la notte del 9 novembre. Una settimana prima, all’ospedale di Pesaro, un ubriaco aveva preso a pugni medici e infermieri. Il 3 novembre, ad Ancona, due No Vax avevano minacciato i sanitari, e solo per un caso la faccenda non si è risolta come il 10 ottobre all’Umberto I di Roma, devastato dai manifestanti No Pass. Il 7 novembre a Pozzuoli un padre ha cercato di strangolare i sanitari che cercavano di salvare sua figlia.

Dopo una tregua nella fase più acuta della pandemia, la violenza contro chi lavora in prima linea è tornata a manifestarsi con una significativa incidenza statistica. Gli ultimi dati Inail del 2019 documentano una media di tre episodi al giorno, per un totale di 1.200 casi denunciati, di cui 456 in pronto soccorso, 400 in corsia e 320 negli ambulatori. Secondo uno studio della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo), un camice bianco su due ha subito aggressioni. Mentre non esistono statistiche su intimidazioni, minacce e molestie che non si trasformano in violenza fisica. “C’è stata una riduzione durante la fase acuta del Covid solo perché la gente aveva paura di andare in ospedale – spiega il presidente Fnomceo, Filippo Anelli – ma le aggressioni sono riprese quando si è tornati all’attività ordinaria. Gli utenti confondono l’attività del medico con le problematiche di organizzazione che gravano sui pronto soccorso e danno libero sfogo alla loro rabbia”. Né hanno funzionato le misure introdotte dalla legge 113 nel 2020 che prevede l’inasprimento delle pene e la procedibilità d’ufficio contro gli aggressori. “L’osservatorio nazionale sulle violenze in ospedale istituito dalla legge non è mai stato insediato. Tutto congelato causa Covid”, denuncia Anelli. E non è l’unica falla: “Solo 8 regioni hanno applicato la raccomandazione ministeriale numero 8 del 2007 che impone di valutare le aggressioni come eventi sentinella per modificare i meccanismi che le hanno determinate”.

Dal 2018 a oggi, in molte piazze italiane, primari e medici hanno manifestato per chiedere ai prefetti una cintura di sicurezza intorno alle aree ospedaliere di emergenza. Perché, più che reprimere, bisogna prevenire. “E le violenze si prevengono anche non sguarnendo i pronto soccorso, dove lo stress è più forte che nei reparti ordinari”, dice convinto Toti Amato, presidente dell’Ordine di Palermo e della commissione nazionale sulle aggressioni di Fnomceo. Il 2018, per altro, era stato l’anno nero delle violenze in corsia e anche quello in cui si era cominciato a rivedere la legislazione in materia, poi cambiata con la legge del 2020. “Prima la denuncia era a carico delle vittime, che spesso rinunciavano per paura di ritorsioni o di imbarcarsi in lunghe vicende giudiziarie”, spiega l’avvocato Corrado Nicolaci che con il collega Mauro Torti segue i procedimenti per l’Ordine dei medici di Palermo. “Adesso – continua – si procede d’ufficio. A Palermo abbiamo firmato un protocollo con la Procura della Repubblica per poterci costituire parte civile in tutti i processi, ma non sempre i pm sono solerti nelle comunicazioni. Finora ci siamo costituiti in dieci procedimenti, dando assistenza anche alle vittime che vogliono essere parte civile. Alcuni si sono già conclusi con condanne definitive”.

È un fatto che quando si spegne l’attenzione dei media e della giustizia, solo chi resta in trincea sa quanta paura può fare la notte in strutture isolate e poco sicure o durante una visita domiciliare. E quanto può essere difficile continuare a lavorare dopo un’aggressione. La Federazione dei medici ne ha fatto un docufilm. Emblematico già nel titolo: “Notturno”. E non solo perché di notte avvengono molte aggressioni, ma anche perché, spesso, chi subisce minacce, insulti e botte dopo aver scelto di dedicarsi agli altri, sprofonda in un altro tipo di oscurità. Quella della depressione.

 

 

 

Medici in affitto. Quando arriva il privato

Al pronto soccorso dell’ospedale San Martino di Oristano, dallo scorso 11 ottobre, a gestire i codici bianchi e verdi ci sono “medici in affitto”. Non dipendenti dell’ospedale, ma di una società, la Mst Group di Vicenza, un service sanitario che fornisce personale a strutture private e, è questo il caso, pubbliche. L’ospedale, di fatto, ha appaltato un ramo d’azienda. Il motivo? Mancanza di personale e impossibilità a trovarne, anche attraverso i concorsi. Non è una novità per la provincia di Oristano. Lo scorso aprile la Mts Group ha preso in gestione il Punto di Primo Intervento dell’ospedale Delogu di Ghilarza, che era rimasto chiuso, durante i mesi del Covid, perché sprovvisto di medici, a un costo (sostenuto dalla Asl locale) non certo economico: 345mila euro ogni 6 mesi. E già siamo al secondo rinnovo.

L’emorragia di personale sanitario nei reparti di emergenza-urgenza sta portando a una progressiva “privatizzazione” dei pronto soccorso, il primo e più importante baluardo del sistema sanitario pubblico. Negli ultimi mesi, la stessa sorte l’ha subita anche l’ospedale Morelli di Sondalo, in Valtellina. Il passaggio di consegne, stavolta relativo alla gestione di tutti gli accessi, dai codici bianchi ai codici rossi, è avvenuto con la Med-Right, Srl lombarda nata – riporta il sito web – come “Service nelle serie semiprofessionistiche di Basket. Da lì l’esperienza si è ampliata a Service per eventi sportivi e di intrattenimento fino alla gestione di Ambulatori in località Turistiche”. Oggi la Med-Right è presente, con i suoi medici in “ambulatori e ospedali del Nord Italia” e offre il suo personale sia per l’intera gestione del reparto, sia “per coperture di turni nei reparti che fanno richiesta per carenze interne di personale nelle differenti specialità”. I casi sardi e valtellinesi sono tra i più eclatanti. Ma quello che sta silenziosamente avvenendo in tutta Italia è che i pronto soccorso si stanno riempiendo di liberi professionisti, non necessariamente legati a service o cooperative, anche semplicemente medici a partita Iva, collaboratori che stabiliscono la disponibilità oraria nel mese e possono anche essere spediti da un ospedale all’altro. La Simeu stima che, nell’ultimo anno, a livello nazionale, almeno il 30% del personale medico reclutato dai reparti di urgenza è in regime di libera professione. Ma è solo una media. Ci sono realtà dove si supera il 70%.

“Ho 25 medici, di cui solo 7 sono dipendenti del servizio sanitario nazionale – spiega Beniamino Susi, direttore del Dea dell’ospedale di Civitavecchia – tutti gli altri sono liberi professionisti, qualcuno lavora anche negli ospedali limitrofi. E mi ritrovo a dover fare i turni prima in base alle loro disponibilità, poi incastrando i dipendenti, che comunque devono fare loro da tutor per interfacciarsi con l’ospedale e tutte le sue complessità”. Eppure, Susi non può che ritenersi “fortunato di avere i liberi professionisti. Quando sono arrivato a Civitavecchia c’era un solo medico di turno al pronto soccorso sulle 24 ore. Si è creata una sorta di dipendenza, senza di loro non potrei andare avanti”. Per altro, c’è un aspetto, in tutta questa situazione, non banale. I liberi professionisti nel mondo della medicina guadagnano bene, anche meglio di un dipendente. La paga oraria media va dai 40 fino agli 80 euro. Ebbene, la Med-Right, in questo momento, ha aperto una call per professionalità “in Ospedali del Piemonte e della Valle d’Aosta. Rapporto di tipo libero professionale con compenso di euro 750 per il turno diurno ed euro 850 per il turno notturno”. E offre anche “copertura assicurativa ed alloggio in loco”.

“Lo stipendio base per un dirigente medico assunto a tempo indeterminato che non ha ancora scatti di anzianità è di 2600 euro. Ebbene, un libero professionista con una settimana di turni si porta a casa più soldi”, sottolinea Salvatore Manca, presidente della Simeu ed ex primario proprio di quell’ospedale di Oristano oggi appaltato ai privati. “Inoltre, se per essere assunti, anche a tempo determinato dal servizio sanitario nazionale, bisogna essere specialisti, i rapporti libero-professionali non lo prevedono. Basta avere la laurea e fare dei corsi abilitanti alla medicina d’urgenza”. Insomma: più soldi e meno responsabilità. “Alla fine ci rimette l’utenza – prosegue Manca – ma non per colpa del singolo medico: questo è un sistema che punta alla completa spersonalizzazione dei reparti di urgenza, trasformando il nostro lavoro in un semplice servizio da erogare”. E così, mentre le aziende ospedaliere non riescono a trovare medici attraverso i concorsi, i service sanitari ampliano le loro fila, con tanti giovani volontari. “È un fenomeno diffusissimo ormai in Piemonte, Veneto, Lazio – dice Andrea Fabbri, direttore del Centro Studi Simeu (Società Italiana della medicina di emergenza-urgenza) e direttore dell’Uo pronto soccorso, Medicina d’Urgenza e 118 dell’ospedale di Forlì – . Si tratta di una scorciatoia amministrativa, ma costa di più all’amministrazione pubblica. E ci troviamo in un paradosso: non solo non abbiamo medici a sufficienza, ma chi lavora nel pubblico si licenzia per andare a fare il libero professionista”.

 

  

 

L’indennità

Anche così si spiegano quelle poche righe nel testo della manovra di bilancio che annunciano una mezza rivoluzione. Lì dove il ministro della Salute Roberto Speranza annuncia la nascita dell’indennità di pronto soccorso. A quanti lavorano nell’emergenza, dall’anno prossimo sarà riconosciuto un compenso aggiuntivo. In tutto sono stanziati 90 milioni di euro all’anno, 27 per i medici e 63 per gli infermieri. Non succedeva dal 2000, da quando Rosi Bindi introdusse dell’indennità di esclusività per chi lavora solo per il pubblico, che un’attività del sistema sanitario ricevesse un aumento motivato esclusivamente dalla complessità e pesantezza del lavoro svolto. Si tratta di un segnale. Viene riconosciuta la difficoltà del momento e si cerca così in qualche modo di spingere i professionisti a restare in pronto soccorso o a sceglierlo per il loro futuro professionale. Non è detto però che la cosa sarà risolutiva. Al di là del fatto che i soldi non sono molti (parliamo di circa 100 euro di più al mese in busta paga), i professionisti chiedono infatti che vengano risolti anche i problemi organizzativi. Soprattutto quelli legati all’assistenza sul territorio, che non fa abbastanza filtro, spingendo nei pronto soccorso anche persone con problemi banali, che potrebbero essere curati altrove.

Gli interventi del ministero sono anche finalizzati a rinforzare gli organici di Asl e ospedali. Intanto è stato aumentato il numero delle borse di specializzazione. Fino ad oggi la strozzatura è stata qui, perché i medici che uscivano dai corsi che fanno diventare internista, chirurgo, psichiatra, oculista eccetera erano troppo pochi rispetto ai pensionati. Negli ultimi due anni, con uno stanziamento extra, si è arrivati a 31mila posti in tutto e d’ora in avanti si porta stabilmente il numero di borse, che sono state anche 6 o 7 mila in dodici mesi, a 12mila. Per farlo, si investono 860 milioni in tre anni. Gli effetti si vedranno tra un po’ di tempo, perché i corsi durano 4 o 5 anni. Anche per questo, nella manovra si prevede che gli specializzandi negli ultimi due anni possano ricevere incarichi di lavoro autonomo e collaborazione, comunque non superiori a sei mesi. Altro passaggio legato alla manovra riguarda i precari entrati in ospedale per fronteggiare il Covid dal 2020 ad oggi. A loro potranno essere dati nuovi incarichi a tempo determinato per il 2022. Non solo, sarà possibile anche stabilizzare i medici che hanno i requisiti. Con un investimento di 690 milioni per il 2022 e circa 625 milioni a decorrere dal 2023. In questo modo, verrebbero assunti circa 30mila professionisti. Va da sé che nei pronto soccorso si augurano che molti scelgano l’emergenza.

altri video, fotografie e grafici cliccando il link sotto riportato

Sorgente: Fuga dal 118: se i pronto soccorso si svuotano di medici e infermieri – la Repubblica

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20