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Dopo sette ore di Camera di consiglio, la decisione dei giudici della Decima sezione penale del tribunale di Roma su alcuni tra i 44 imputati che conferma l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia della Capitale

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Sì, almeno in periferia è “mafia capitale”. Il tribunale di Roma ha riconosciuto che il clan Casamonica è un’associazione mafiosa. Una vittoria netta della linea della procura, sostenuta in aula dai pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Contrariamente al verdetto di Cassazione nei confronti di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, la violenza che ha imprigionato interi quartieri della metropoli è stata punita come espressione di un potere mafioso. Una sentenza solo di primo grado, ma che segna comunque un punto di svolta nella lotta alla criminalità organizzata romana.

Casamonica, la difesa: “Se chiedi soldi a loro, sai già che dovrai restituire una cifra maggiorata”

Sono stati condannati per 416 bis con le pene più alte, Domenico detto Balù (30 anni), Giuseppe Casamonica, detto Bitalo (20 e 6 mesi), e poi gli altri fratelli, Salvatore (25 anni e 9 mesi), Pasquale (23 anni e 8 mesi), Massimiliano (19 anni e 4 mesi).

 

Condannata a 17 e 9 mesi Liliana, detta Stefania, la donna che ha preso le redini dell’organizzazione quando i fratelli sono finiti in carcere. Alla lettura della sentenza, dopo sette ore di camera di consiglio, sono rimasti pietrificati. Gli altri imputati sono stati riconosciuti colpevoli di traffico di droga, estorsione, usura.

“Una sentenza che conferma la serietà della linea della procura”, commenta brevemente Ilaria Calò, a capo della Dda di Roma.

 

“Questa sentenza fa luce su una sequela di episodi di estorsione e violenza rimasti sino ad oggi impuniti, anche a causa della dilagante omertà imposta dal clan nel quadrante sud-est della capitale. La procura di Roma e la polizia giudiziaria, nel giro di pochi anni, hanno saputo imprimere un colpo durissimo alle cosche dei Fasciani, Spada, Casamonica e dei Senese, per troppo tempo egemoni”, osserva l’avvocato Giulio Vasaturo, legale di parte civile per conto dell’associazione antimafia Libera.

 

 

Il funerale di Vittorio Casamonica nell’agosto del 2015 

Valuta con soddisfazione il riconoscimento del quadro accusatorio anche Luigi Ciatti, presidente dell’ambulatorio antiusura, che registra però: “l’assenza delle vittime, nessuna infatti si è costituita parte civile. Se vogliamo liberare le nostre città da questi fenomeni, fatte le indagini, fatti i processi è necessario che chi subisce questi reati faccia una scelta di campo netta, alzi la testa e dica con fermezza no alla criminalità”.

 

 

 

Il processo è durato due anni. Con testimoni spesso chiusi tra un “non ricordo” e “sono confuso”. Con le difese agguerrite nel respingere ogni addebito della Procura sostenendo che si voglia criminalizzare tutti i Casamonica, punendoli non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, perché – come ha sostenuto l’avvocato Giosué Naso – “la mafia quella vera, purtroppo, è molto diversa da ciò che fanno quei ‘quattro cazzari’ che hanno devastato un bar”.

Che i Casamonica non avessero più un rango periferico tutto il mondo lo ha scoperto con il solenne funerale pubblico celebrato nell’agosto 2015.  La carrozza regale, l’elicottero spargifiori e la banda costretta a suonare le note de ‘Il Padrino’ per celebrare “zio Vittorio”. Un’esibizione di potere sulla pubblica piazza, che ha avuto eco planetaria e obbligato l’intera città ad aprire gli occhi su questa famiglia rom, in grado – secondo le indagini – di trattare da pari a pari con le altre organizzazioni criminali che le riconoscono prestigio, controllo del territorio, capacità di diversificare gli affari e di instaurare reti di relazioni importanti.

Dalle inchieste sono emerse storie di ferocia raccapricciante, esercitata per imporre l’usura. Tassi pure del mille per cento e persone che accettano anche di diventare succubi a vita. Perché o paghi subito o diventi loro schiavo.

“Ti si mangiano, sono tanti, sono pieni di fratelli e cugini che si muovono” ha spiegato terrorizzato persino un calabrese vicino alla ‘ndrangheta. L’usura si è trasformata nella sorgente di investimenti in bar, ristoranti, locali notturni nel centro storico e nel cuore della movida capitolina, mentre una legione di colletti bianchi li ha aiutati a ripulire denaro e stringere relazioni. In passato sono riusciti persino a infilarsi nel Palazzo di Giustizia, hanno pianto e corrotto, fatto ricorsi, evitando così le pene più dure e ottenendo addirittura di trascorrere parte degli arresti in comunità di recupero dove si pratica “l’amore come terapia e come senso della vita”.

A rendere possibili queste condanne sono stati anni di nuove indagini condotte dai carabinieri di Frascati ma soprattutto il coraggio di una donna, Debora Cerreoni, che ha collaborato con i magistrati, abbattendo il muro dell’omertà e descrivendo dall’interno le attività della famiglia. A riconoscere il valore delle loro deposizioni è stato un collegio composto interamente da magistrate, presieduto da Antonella Capri.

Sorgente: Casamonica, sentenza al maxi-processo: “E’ un clan di mafia”. Trent’anni al boss Domenico – la Repubblica

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