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Dossier: da Washington a Pechino, passando per gli attori che stanno cercando di importi sullo scenario. Ci sono anche Qatar e Bangladesh

STATI UNITI

dalla nostra inviata Anna Lombardi

NEW YORK– La “forever war”, la guerra più lunga degli americani, è finita. Ma per gli Stati Uniti, al momento, si tratta più di una svolta che di una conclusione effettiva. Il segretario di Stato Tony Blinken lo ha detto chiaro ieri: “Conclusa la missione militare inizia quella diplomatica”. Si apre insomma una nuova fase di coinvolgimento americano in Afghanistan che, secondo il Washington Post, “non sarà meno pericolosa e impegnativa dei 20 anni precedenti”.

Biden deve innanzitutto affrontare lo scetticismo interno rispetto alla fiducia accordata ai talebani (definiti ieri dal generale Kenneth McKenzie “pragmatici e professionali” scatenando l’ira dei social) impegnatisi a portare avanti una transizione pacifica, senza vendette verso chi ha aiutato gli americani, e nel rispetto dei diritti delle donne. Preoccupandosi di tenere a bada le minacce alla sicurezza nazionale, col timore che i fondamentalisti tornino a dare rifugio ai terroristi e dunque ricostruendo dai Paesi vicini la rete antiterrorismo che la Cia aveva già smantellando pensando di poter focalizzare la propria attenzione altrove, concentrandosi su Russia e Cina.

 

 

 

 

Bisogna anche affrontare, con gli alleati, la crisi umanitaria determinata dal mezzo milione di afghani che nei prossimi giorni cercherà di lasciare il paese. Insieme a quella determinata dai 117mila evacuati che in buona parte aspirano ad entrare negli Stati Uniti, dove però non sono esattamente i benvenuti, con la base repubblicana già mobilitata contro di loro. Garantendo allo stesso tempo l’uscita dall’Afghanistan dei circa 200 americani rimasti indietro. Anche per questo i diplomatici dell’ambasciata americana a Kabul continueranno ad operare da Doha.

Mentre il dialogo coi talebani continua, sì, ma attraverso la mediazione di due paesi alleati che ora diventano cruciali: Qatar, appunto, e Turchia. Il primo nodo è già al pettine: ripristinare l’attività del Karzai Airport, per permettere, appunto, di far uscire coloro che lo vogliono come promesso dai talebani. Gli studenti islamici hanno già rifiutato di affidare la sicurezza dello scalo a forze straniere. E dunque, per ora, quella porta è sbarrata.

 

 

 

“Non ci fidiamo ma Stati Uniti e talebani potrebbero cooperare su priorità che sono nel nostro interesse nazionale vitale e intanto lavorare in aree di reciproco interesse, come garantire il rilascio di ostaggi americani, rendere la regione più stabile e condurre operazioni antiterrorismo contro l’Isis-K” ha detto il segretario di Stato Blinken, chiarendo che affinché la partnership funzioni, i talebani dovranno mantenere le promesse che hanno fatto di governare il Paese in modo diverso rispetto al brutale regno negli anni 90.

Gli americani sperano in questo modo anche di liberare Mark Frerichs, 58 anni, veterano dei marines, rapito a Kabul nel gennaio 2020 dopo essere stato attirato in quello che pensava fosse un incontro di lavoro, e invece era una trappola ed è ancora lì. Blinken lo ha citato espressamente: “Se riusciamo a lavorare con il nuovo governo afghano sarà un modo per proteggere interessi più grandi, compreso il ritorno in sicurezza di Mark Frerichs…”.

 

 

 

Ma intanto il caos del ritiro – macchiato dal sangue dei 13 giovani marines morti nell’attentato kamikaze di giovedì – ha già minato il messaggio di Biden sull’inutilità del conflitto. I dem temono che il contraccolpo eroderà ulteriormente le loro prospettive alle elezioni di MidTerm. E alcuni, per ora in privato, già chiedono la caduta delle teste di Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Mentre la base repubblicana preme per chiedere l’impeachment di Biden.

Prospettiva impossibile oggi, ma praticabile in caso di sconfitta elettorale a MidTerm. Voltare pagina in Afghanistan resta obiettivo cruciale della politica estera di Biden, intenzionato a reindirizzare l’attenzione americana verso le crescenti sfide poste da Cina e Russia. Ma il modo in cui è stato condotto ha indebolito una delle premessa della sua politica estera: inaugurare un’era di maggiore empatia e collaborazione con gli alleati dopo l’approccio “America first” di Donald Trump. Gli americani stanno tentando di mettere una toppa anche lì. A questo è servito.

QATAR

di Vincenzo Nigro

C’è un piccolissimo paese del Golfo Persico che in questa crisi afghana ha confermato di essere una super-potenza politica di primo livello. È il Qatar guidato dalla famiglia reale Al Than. Il paese che da oggi – ad esempio – ospita quasi tutte le ambasciate occidentali in Afghanistan, che da Kabul hanno deciso di rischierarsi proprio nella capitale Doha. A partire dalla missione americana.

Da anni Doha è diventato il canale principale di mediazione fra Stati Uniti e talebani. Non a caso i colloqui, il negoziato che l’amministrazione Trump aveva avviato con gli studenti islamici, si sono tenuti per mesi in un grande albergo di Doha, e lì l’allora segretario di Stato Mike Pompeo aveva incontrato i capi dei talebani.

In questi 15 giorni il Qatar non ha giocato soltanto un ruolo politico, diplomatico o da pubbliche relazioni. Alcune decine dei suoi pochi militari sono state schierate all’aeroporto di Kabul come hanno fatto americani, italiani, francesi o tedeschi. I convogli guidati dal loro attivissimo ambasciatore a Doha sono andati avanti e indietro dalla città superando ogni volta i posti di blocco degli studenti islamici, per far entrare in aeroporto profughi e chi chiedeva asilo. Gli aeroporti di Doha hanno accolto non soltanto i voli di trasferimento americani, ma anche quelli dell’emirato che ha scelto di evacuare alcune centinaia di stranieri e di afgani

 

 

A questo punto il Qatar ha consolidato un ruolo politico che su un altro fronte lo vede impegnato come mediatore decisivo anche a Gaza, dove tratta con Hamas e con Israele per favorire che i momenti di tregua fra israeliani e palestinesi durino il più a lungo possibile.

Il successo del Qatar in questa fase della crisi afgana consolida un altro passo decisivo: il 5 giugno del 2017 4 stati arabi avevano provato a strangolare l Qatar con un durissimo embargo civile e commerciale. Arabia Saudita (con cui il Qatar ha il suo unico confine terrestre), Egitto, Emirati Arabi e Bahrain avevano bloccato i voli aerei, le comunicazioni, i permessi di accesso per i rispettivi cittadini e ogni transazione commerciale.

In Qatar in poche ore iniziarono a mancare il cibo, le verdure, le forniture sanitarie, il latte. In pochi mesi l’emirato, con l’aiuto di paesi come Iran e Turchia, riuscì a superare la fase critica e a consolidare una sua autonomia economica, commerciale e produttiva prima ancora che politica che oggi lo mette in condizione di avere alleati capaci di proteggerlo dai “fratelli” arabi vicini e lontani che avrebbero voluto travolgerlo.

Joe Biden ha chiamato personalmente l’emiro Tamim Al Tani, 41 anni, per ringraziarlo di quello che il suo paese ha fatto per rendere meno travolgente la ritirata americana dall’Afghanistan. DI sicuro l’America ma anche tutti i paesi della regione sanno che oggi il Qatar non è più una piccola pedina nel Grande Gioco che continuerà attorno all’Afghanistan e al Golfo Persico

 

 

TURCHIA

dal nostro inviato Pietro Del Re

Nelle ore in cui la comunità internazionale sta cercando il modo migliore per dialogare con i talebani, è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a tornare protagonista come già nel 2015 durante la crisi siriana. La Turchia, che ospita già quasi 5 milioni di rifugiati provenienti in gran parte dalla Siria, è preoccupata per il rischio di una nuova ondata migratoria.

Ma il nuovo scenario afghano offre a Erdogan una leva per rafforzare la sua influenza in Asia centrale e i rapporti già buoni con Cina, Russia e Pakistan; e per accrescere il peso nei rapporti con l’Europa e gli Stati Uniti. La prudente apertura di Ankara verso gli “studenti coranici” è nelle parole del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu: “I messaggi dati finora dai talebani sono positivi. Speriamo che questo si rifletta nelle loro azioni”. Tuttavia, il ritiro dei soldati turchi dall’aeroporto di Kabul evidenzia una debolezza strategica di Ankara, membro dell’Alleanza Atlantica.

La Turchia non riesce ancora a muoversi in autonomia. Ma per tutti quegli afghani che nei prossimi mesi e anche prossimi anni a riusciranno a fuggire dall’Afghanistan, la Turchia diventa una sorta di miraggio, poiché è la meta da raggiungere in auto o in pullman per poi puntare in nave verso le coste greche e italiane.

CINA

dal nostro corrispondente Gianluca Modolo

PECHINO– L’attentato all’aeroporto di Kabul e la ritirata degli americani e degli alleati complicano le ambizioni della Cina, ma inevitabilmente danno un’accelerata alle prossime mosse di Pechino. Il ritiro “non è la fine delle responsabilità, ma l’inizio della riflessione”, sottolinea il rappresentante cinese all’Onu.

Pechino si impegna ad aiutare il Paese nella ricostruzione pacifica, ma chiede che anche Washington faccia la sua parte. “Per l’Afghanistan è un nuovo inizio”, ha dichiarato ieri il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, promettendo uno “stretto coordinamento con tutte le parti in Afghanistan e con la comunità internazionale”.

Prove di dialogo tra Cina e Usa? Nel giro di pochi giorni il ministro degli Esteri Wang Yi si è già sentito due volte con il segretario di Stato Blinken. Mentre continua a bacchettare Washington per la sua politica fallimentare, il capo della diplomazia pechinese chiede che gli Usa forniscano supporto a Kabul: i talebani vanno guidati nella formazione del nuovo governo.

 

 

A Pechino ha fatto comodo in tutti questi anni la presenza americana ed è allarmata, ora, dal pericoloso vuoto. Difficile leggere nella nebbia che avvolge la politica comunista. Di certo è che da giorni la diplomazia cinese continua a chiedere garanzie. Sottolineando che una “soluzione politica” è l’unica via d’uscita. Chiedendo ai talebani di coinvolgere altri attori nella formazione del futuro governo: non perché creda nel pluralismo, bensì perché spera che il Paese non diventi di nuovo una base per le organizzazioni terroristiche.

Cina e Usa possono lavorare assieme, sostiene più di qualche analista. Come, però, è ancora tutto da vedere. Uno degli ostacoli maggiori ruota intorno all’Etim, il movimento dei jihadisti uiguri. La Cina li considera responsabili degli attacchi nel Xinjiang e chiede ai talebani di tagliare i rapporti; gli Usa, invece, lo scorso anno li hanno tolti dalla lista delle organizzazioni terroristiche. “La Cina è il nostro grande vicino”, ripete il portavoce dei talebani. “Può avere un ruolo positivo per la ricostruzione del Paese”. A Pechino però serve stabilità: tanto a Kabul quanto ai suoi confini.

 

 

RUSSIA

di Rosalba Castelletti

Terroristi, eppure interlocutori. Il Cremlino ritiene prematuro rivedere lo status giuridico dei talebani riconosciuti dal 2003 da Mosca come terroristi e perciò banditi dalla Federazione: solo dopo i primi passi delle nuove autorità afghane, “si potranno trarre alcune conclusioni”, ha detto il portavoce Dmitrij Peskov.

Eppure ha aperto al dialogo. Già da tempo ha ospitato colloqui con gli “studenti coranici” a Mosca. Dopo la presa di Kabul, ha mantenuto aperta l’ambasciata. E ora, fa sapere Zamir Kabulov, inviato di Vladimir Putin in Afghanistan, “è relativamente a suo agio” col nuovo regime. A Mosca non importa la bandiera del nuovo governo a Kabul, quanto la sua efficacia nell’arginare terrorismo e traffico di droga, evitare un esodo di rifugiati e garantire la sicurezza degli alleati in Asia centrale, dove ha tuttora basi militari.

TAGIKISTAN

dal nostro inviato Pietro Del Re

DUSHANBE – Per il Tagikistan, il nuovo Afghanistan talebano è terra di nessuno o, peggio, un Paese finito nelle mani di diabolici terroristi con i quali non si deve dialogare e il cui governo non sarà mai riconosciuto come legittimo. Hic sunt leones. E i “leoni” islamisti lì devono restare. Per questo motivo, da quando i mullah hanno conquistato Kabul, il governo di Dushanbe ha deciso di chiudere ermeticamente i suoi 1300 chilometri di confine. E l’ha chiuso non soltanto con l’Afghanistan, ma anche con l’Uzbekistan, che invece ha mantenuto le frontiere aperte a chi cerca di scappare dal regime degli “studenti coranici”.

 

 

A metà luglio, il presidente tagiko Emali Rakhmon ha definito chi governa oggi Kabul come un “gruppo di terroristi”, ma ha tuttavia smentito di fornire armi ai combattenti anti-talebani della valle del Panshir, anch’essi di etnia tagika. A Dushanbe ancora non si sono rimarginate molte delle ferite della cruenta guerra civile che funestò il Paese tra il 1992 e il 1997 tra gli islamisti e l’autoritario Rakhmon, che alla fine trionfò.

Il Tagikistan, che era la più povera delle repubbliche socialiste sovietiche e la cui economia è tutt’ora molto malconcia, sta ovviamente perdendo parecchi soldi con la chiusura delle frontiere. Ma al momento, l’unico slogan che il governo ripete come un mantra è: la sicurezza prima di tutto.

 

 

PAKISTAN

dal nostro inviato Fabio Tonacci

ISLAMABAD – Il riconoscimento formale del secondo Emirato Islamico dell’Afghanistan passa dal Pakistan. Fino a oggi a Islamabad, memori delle conseguenze diplomatiche subite dal Paese quando nel 1996 si affrettò a dare legittimità (insieme con Arabia Saudita e Emirati Arabi) al primo regime talebano, è stato l’argomento proibito.

Il ministro per l’Informazione Fawad Chaudhry poco dopo aver visto issare la bandiera bianca degli studenti coranici sui palazzi di Kabul si era limitato a dire che “il riconoscimento dovrà essere innanzitutto una decisione regionale”: una faccenda che interpella anzitutto chi ha interessi economici dipendenti dal turbolento vicino. Dunque Pakistan, Cina, Iran e le Repubbliche del Centro Asia.

“Questi Paesi devono assumere un ruolo attivo nella crisi afghana”, ribadisce adesso. Aggiungendo: “Stiamo lavorando per un governo inclusivo. Se il mondo ripeterà gli errori del passato e abbandonerà l’Afghanistan, ci ritroveremo con un hub del terrorismo oltre confine”.

Non è un caso, dunque, che il ministro degli Affari Esteri pachistano Shah Mahmood Qureshi nei giorni scorsi sia volato in Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran, per spiegare di essere in contatto coi talebani. “Stanno dando dei segnali positivi e il mondo deve incoraggiarli”, è il suo messaggio. Ma perché il Pakistan pressa così per la legittimazione dell’Emirato?

 

 

La questione è complicata e va oltre la condivisione della fede islamica. Pakistan, Cina e Uzbekistan puntano a farne un paese stabile, a prescindere da chi lo guiderà. L’Afghanistan è tuttora il rifugio, dei terroristi del TTP (i talebani pachistani), dei jihadisti uiguri del Movimento islamico del Turkistan e dei miliziani integralisti dell’Islamic Movement of Uzbekistan.

Sperano che i talebani siano in grado di controllare e reprimerli, perché stabilità significa soldi. Il corridoio cino-pachistano, costruito coi miliardi di Pechino per uno sbocco nel Mar Arabico e una via simile che attraversa l’Afghanistan, funzionano solo se non vengono colpiti da attentati. Un governo talebano riconosciuto dalla Comunità internazionale, inoltre, sottrae definitivamente l’Afghanistan dalla sfera di influenza dell’India, il nemico storico del Pakistan.

IRAN

di Giampaolo Cadalanu

Al di là della soddisfazione proclamata per l’umiliante partenza degli Usa, l’Iran è prudente nel vedere motivi di gioia nel ritorno al potere dei Talebani. Teheran ha mantenuto operativa la propria ambasciata a Kabul ma non sembra aver fretta nel riconoscere il nuovo governo afgano.

Negli anni recenti l’Iran aveva avviato una collaborazione con gli “studenti coranici” in chiave anti-americana, ma non ha dimenticato l’assassinio dei suoi diplomatici a Mazar-i-Sharif nel 1998, per mano talebana, rappresaglia per il sostegno iraniano all’Alleanza del Nord.

Ora al centro dei futuri rapporti fra il rinato Emirato e la Repubblica islamica c’è soprattutto la comunità sciita, in prevalenza di etnia hazara. In passato i talebani hanno perseguitato gli sciiti, che nella lettura rigida dell’islam sunnita sono considerati apostati.

 

 

Ma l’anno scorso i talebani hanno designato un hazara come governatore distrettuale nel nord. E a sentire le notizie di questi giorni, i nuovi padroni dell’Afghanistan continuano a lanciare segnali di riappacificazione, partecipando anche alle celebrazioni dell’Ashura, la festa più importante per gli sciiti, che ai tempi del mullah Omar era vietata. Teheran ha risposto chiedendo alla stampa iraniana di moderare i toni verso i talebani, evitando termini come “brutalità, crimini, atrocità”.

Un’incognita significativa è il ruolo della divisione Fatemiyoun, costituita da sciiti afgani, reclutata dai Guardiani della Rivoluzione, inquadrata con le Forze armate iraniane e schierata in Siria contro il Califfato. Potrebbe essere un alleato nello scontro inevitabile fra talebani e Isis-Khorasan, ma potrebbe essere anche una forza di intervento in caso di abusi contro gli hazara.

INDIA

di Carlo Pizzati

L’India ha patito il più impressionante ribaltone di tutta la regione, con la riconquista talebana dell’Afghanistan e la ritirata americana. Delhi è passata dall’essere il partner regionale privilegiato di Kabul a quello più inviso dal regime dei fondamentalisti islamici. Ciò per l’India significa tre cose: una seria perdita di investimenti; il rischio di avere forze nemiche sulla soglia di casa; e un’impennata strategica per due acerrimi nemici ancor più pericolosi, il Pakistan e la Cina.

Appena sei settimane fa, il premier indiano Narendra Modi inaugurava il più importante simbolo della democrazia in Afghanistan, il nuovo palazzo del Parlamento, costato 76 milioni di euro investiti dall’India. Delhi ha stanziato più di 2,5 miliardi di euro in progetti di sviluppo, borse di studio e infrastrutture, vantando d’avere avviato 400 progetti in ognuna delle 34 regioni dove abitano i 38 milioni di afghani.

Il commercio bilaterale nel biennio ’19-’20 era schizzato a 1,3 miliardi di euro. Ora, invece, l’operazione Devi Shakti si è affrettata per evacuare 800 persone da Kabul, da quando l’ex presidente Ashraf Ghani, s’è dileguato a Ferragosto, seguito da diplomatici e organizzazioni indiane.

 

 

 

L’India ha aspettato troppo prima d’accennare vaghe aperture ai talebani. L’ambasciatore di Ghani è ancora nella sede di Delhi “in attesa di sviluppi.” Gli sviluppi per l’India sono che i talebani sono uno strumento del Pakistan, che sta cercando di coinvolgere la Cina per controllare l’Afghanistan economicamente. E si teme che ora riprendano fiato gruppi terroristici anti-indiani come Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Mohammad, votati alla battaglia per il Kashmir. Speranze di dialogo? Pochissime. Nelle parole dell’ex ambasciatore a Kabul, Gautam Mukhopahaya: “Difficile che un leopardo cambi le sue macchie. La vera natura dei talebani è di essere manovrati dal Pakistan”.

BANGLADESH

di Carlo Pizzati

Anche se non è adiacente all’Afghanistan, il Bangladesh confina più di ogni altro idealmente con quel Paese e ne è da sempre influenzato, soprattutto dopo che i jihadisti bangladesi rientrarono dalla Guerra Santa contro il nemico sovietico negli anni Settanta.

Ora che gli estremisti talebani hanno riconquistato il potere a Kabul, molti gruppi fondamentalisti del Bangladesh si sono ringalluzziti, sperando che l’ondata di riconquista degli estremisti arrivi fino al Golfo del Bengala.

Non sarà certo facile, perché la primo ministro Sheikh Hasina, al potere dal 2009, implementa da tempo una politica di “tolleranza zero al terrore”, che però non è riuscita ad evitare la strage di Dhaka del 2016 dove sono morti 5 attentatori e 22 civili, di cui 18 stranieri (nove gli italiani uccisi).

Il pugno di ferro contro i vari gruppi estremisti è talmente severo che il governo Hasina s’è attirato più di una critica da organizzazioni occidentali per le violazioni dei diritti umani. Il gruppo più temuto e più simile ai talebani è quell’Hifazat-e-Islam che controlla l’estesa rete della madrasse Quami.

 

 

 

Come i talebani, anche l’Hifazat-e-Islam è contro l’emancipazione femminile, per severe leggi anti-blasfemia e per un’interpretazione più cruenta della Sharia. Nelle loro proteste hanno dato fuoco a uffici, negozi, scuole di musica e bus. In questo clima, la vittoria talebana può innescare quella spinta in più che potrebbe aggravare la situazione in Bangladesh.

Già su Facebook si propagano dozzine di messaggi così: “Dobbiamo ingaggiare una lotta in stile talebano contro gli apostati del governo di Sheikh Hasina“. Ora si teme, in un dejà vu degli anni Settanta, che quei jihadisti bangladesi accorsi in Afghanistan in risposta alla richiesta d’aiuto dei talebani, rientrino a casa per diffondere il progetto dell’Emirato islamico.

 

Sorgente: Afghanistan, la nuova mappa delle alleanze: come cambia la geopolitica dal primo giorno di governo dei talebani – la Repubblica

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