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Uno dei temi su cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) pone maggiormente l’enfasi è quello della ricerca, considerata un volano “per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza, di competitività e di resilienza” (p. 171). Belle parole, che tuttavia, ad un’accorta disamina del PNRR, nonché ad una critica considerazione del perimetro entro cui gli interventi si svilupperanno, nascondono delle pericolose insidie. Tanto per cominciare, il passaggio appena riportato prosegue con un attacco frontale allo status quo dell’apparato formativo italiano, specificando che le azioni del PNRR dovranno partire “dal riconoscimento delle criticità del nostro sistema di istruzione, formazione e ricerca”. Tra questi problemi, vengono elencate questioni di sacrosanta rilevanza per il nostro Paese, tra cui gli alti tassi di abbandono e gli importanti divari territoriali in termini di istruzione, ma anche rischiosi concetti come il presunto mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro e una ‘limitata integrazione’ dei risultati della ricerca nel sistema produttivo.Proviamo ad eviscerare i contenuti del PNRR nel campo della ricerca e dell’istruzione, partendo da una doverosa premessa sull’entità e sul funzionamento del Piano stesso.Il PNRR dentro la cornice dell’Unione Europea: pochi soldi e tanta condizionalitàMentre la stampa continua a raccontarci che un fiume di denaro, per fortuna gestito dai competenti del governo Draghi, sta invadendo il nostro Paese e ci permetterà di uscire da questa catastrofe con poche ferite, ad un’attenta lettura le cifre si rivelano purtroppo del tutto inadeguate alla portata della crisi.Si tratta, in larga parte, di prestiti e risorse che finanzieranno progetti già in programma e in bilancio. Per la realizzazione del PNRR, l’Italia potrà attingere dal Next Generation EU (la cui più ampia componente è il Recovery Fund) risorse pari a 205 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone, ci basta pensare che il programma finanzierà in sei anni investimenti per un importo minore di quanto già speso dal Governo italiano nei primi 15 mesi di emergenza (circa 210 miliardi). Escludendo i prestiti e conteggiando la quota che l’Italia versa per la partecipazione al bilancio europeo, le risorse aggiuntive messe a disposizione dall’Europa non superano i 50 miliardi divisi su sei anni. Detto in altri termini, gran parte del PNRR sarà finanziato, prima o poi, con risorse nazionali, sotto lo sguardo della Commissione che, come vedremo in seguito, vigilerà sui deficit eccessivi.Ma c’è di più. Oltre a trattarsi di pochi spicci, c’è una parola, un concetto che meglio di ogni altro descrive il funzionamento di questo programma: la condizionalità. È un principio che torna e riemerge ad ogni occasione, e che ci permette di contrastare la favola dell’Europa solidale. Condizionalità vuol dire che ogni euro concesso è subordinato all’adempimento di una serie di obblighi, all’attuazione di riforme stabilite dalle istituzioni europee e all’adesione al progetto politico dell’austerità, in maniera tale che a fronte dell’euro ricevuto oggi si paghi un prezzo, politico ed economico, ben più caro nei prossimi anni in termini di ulteriore rigore fiscale.Iniziamo dalle riforme. Con il PNRR, l’Italia si è impegnata ad effettuare, oltre a 132 specifici progetti d’investimento, ben 58 riforme. La Presidente della Commissione europea Von der Leyen ha ricordato in più occasioni che i fondi verranno erogati in tranche su base semestrale, e che le istituzioni europee vigileranno su questo cammino ed avranno facoltà di interrompere l’erogazione dei fondi qualora il Paese devii dalla retta via. Ce lo ha rammentato, di recente, anche il ministro Brunetta, che ha definito il PNRR come un contratto: soldi (pochi) in cambio di riforme. Se, fino ad oggi, il PNRR ha raccolto i favori dell’Unione europea, è proprio perché le principali linee di intervento messe in programma dal Governo Draghi coincidono esattamente con le priorità delle istituzioni europee. Tra queste:1. Enfasi assoluta sulle politiche attive del lavoro, cioè quelle misure imbevute della retorica secondo la quale la ‘colpa’ della disoccupazione è del disoccupato stesso, reo di non essere abbastanza appetibile per il padrone. Una visione favolistica del mercato del lavoro che ci racconta di imprenditori che desidererebbero enormemente assumere, ma sono frenati dalla qualità scadente dei lavoratori disponibili e dal non allineamento tra le loro esigenze produttive e le ‘skills’ (le competenze) di chi cerca un lavoro. Tutto questo in barba alla realtà dei fatti, che ci ricordano che, a fronte di 2,5 milioni di disoccupati e di altrettante persone inattive causa scoraggiamento o motivi simili, i posti vacanti (cioè i lavori disponibili e che aspettano di essere occupati) sono solo 350 mila.2. Mano libera al mercato, nella convinzione che quest’ultimo sappia, in autonomia, generare al contempo benefici per tutti ed efficienza. Si scopre infatti che fa

Sorgente: La ricerca secondo il PNRR: poca, precaria e funzionale alle imprese | coniare rivolta

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