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Viaggio nelle crisi industriali dove la fabbrica e il lavoro sono diventati ‘invisibili’

La Gig economy ci ha convinto che gli oggetti della nostra vita si materializzino da un altrove impalpabile. Accessibile online e con consegne a domicilio ad horas. Tutti i passaggi della filiera produttiva sono diventati, nella percezione comune, archeologia industriale. Soddisfatti del risparmio garantito, dimentichiamo che ogni ‘sconto’ sulla merce ha un costo umano. Intorno a noi o nello spazio lontano delle delocalizzazioni. Il nostro è il tempo delle fabbriche invisibili. E delle ‘nuove’ fabbriche, come gli hub della logistica che sono il motore della nostra esistenza di consumatori gratificati senza se e senza ma.
Con la rimozione delle fabbriche è anche quella degli operai. Quasi fossero una reminiscenza novecentesca consegnata agli archivi da foto in bianco e nero. Salvo scoprire ciclicamente il contrario. Quando gli operai – è storia della scorsa settimana – scendono in piazza. Per difendere la loro fabbrica dalle delocalizzazioni. Per sottrarla a liquidazioni figlie di cattiva gestione. Per denunciare gli impegni disattesi assunti dalla Politica. È accaduto con gli operai dell’Ilva di Genova che, per tre giorni consecutivi, hanno bloccato mezza città, presidiando via Guido Rossa con lo slogan “Non c’è crisi di mercato, ma ci mettono lo stesso in cassa integrazione”. Un nome-simbolo, perché Guido Rossa era l’operaio-sindacalista dell’Italsider ucciso nel 1979 dalle Brigate Rosse. Gli anni di piombo, tensioni sociali oggi grazie al cielo inimmaginabili. I poliziotti dei reparti celere davanti alla protesta di Genova si sono tolti i caschi, solo lavoratori di fronte ad altri lavoratori. Gli operai continuano a scendere in piazza. È accaduto a Napoli, con i dipendenti della Whirlpool che per l’ennesima volta hanno bloccato lo svincolo dell’autostrada. Ed è accaduto a Torino, dove gli operai della ex Embraco presidiano la prefettura da settimane.

Ha scritto Ezio Mauro su questo giornale nelle ore terribili della morte di Adil Belakhdi, il sindacalista travolto e ucciso da un Tir durante le proteste davanti a un magazzino nel Novarese: “Il lavoro dipendente, materiale, si subordina e da attore sociale collettivo, com’è stato nel Novecento, diventa una semplice variabile dipendente dalla necessità, una struttura servente senza una valenza e un ruolo autonomi. L’indebolimento del lavoro, da soggetto politico a merce è un indebolimento di civiltà, che ci porta in un’era sconosciuta”. Abbiamo dunque deciso di fare un viaggio in alcune delle crisi industriali del Paese per raccontare il lavoro diventato improvvisamente “invisibile”. Per dargli un volto, dei nomi, delle storie. E ricordare di cosa è fatto.

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La repubblica operaia di Mel

“Benvenuti nella repubblica operaia di Mel”. Stefano Bona scherza, ma non troppo. Ai cancelli della fabbrica, sotto l’insegna Italia Wanbao Acc, è appeso uno striscione di tela con su scritto ‘Adesso la storia la scriviamo noi’. Il Piave mormora oltre la strada mentre, laggiù, le Dolomiti Bellunesi preannunciano i più famosi dei monti pallidi. Il Civetta, le Pale di San Martino, la Marmolada. “Contro ogni possibile previsione continueremo a produrre anche a luglio e ad agosto. Forse pure a settembre”, spiega Stefano, sindacalista della Fiom-Cgil, raccontando la storia di una fabbrica e di una resistenza operaia che, al di là delle dimensioni dello stabilimento di Mel, incarna alla perfezione quanto sta succedendo in tante province del sistema industriale italiano. E in più di una ‘capitale’. Diciamo pure che la storia della Wanbao Acc è un paradigma.

 

Lo stabilimento della Italia Wanbao-ACC di Campo San Pietro (Belluno) 

A Mel, la fabbrica la chiamano ancora tutti Zanussi, ricordando l’epoca d’oro, gli anni Ottanta, quando occupava duemila persone. Produce compressori per frigoriferi. L’avevano costruita dopo il disastro del Vajont del 1963 per rilanciare l’economia del territorio. Oggi tra operaie e operai sono rimasti in 300, hanno visto arrivare e andarsene una proprietà cinese, la Wanbao appunto. Una multinazionale ‘mordi e fuggi’. Poi lo spettro della chiusura, il commissariamento e l’inizio della via crucis di un rilancio possibile ma sempre più complicato. Un anno fa, la luce in fondo al tunnel: il commissario straordinario, Maurizio Castro, insieme all’allora sottosegretaria allo Sviluppo Economico del governo giallo-rosso, Alessandra Todde, studia e articola un piano che prevede la nascita del polo nazionale della componentistica per elettrodomestici (si chiamerà ItalComp) unendo la Wanbao Acc e la ex Embraco di Riva di Chieri, Torino. Sembrerebbe intravedersi un barlume di politica industriale, con lo Stato nel ruolo di pivot attraverso Invitalia (la società di promozione industriale del Tesoro). A Mel c’è grande entusiasmo per il progetto. Per non parlare di Torino, dove i 400 operai della ex Embraco sono fermi dal 2018 perché la fabbrica è spenta e improbabili tentativi di reindustrializzazione sono miseramente naufragati. Ma anche i lavoratori piemontesi resistono aggrappati all’idea di un futuro per il ‘loro’ stabilimento.

 

I protagonisti

 

Un anno dopo, il sogno ItalComp è tramontato, frenato dalla pandemia e dal cambio di guardia nel governo con il nuovo ministro dello Sviluppo Economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, che considera impraticabile il progetto e che comunque vuole affidarsi solo all’intervento di soggetti privati. Di fatto, una condanna definitiva per la ex Embraco e un’ipoteca pesantissima anche sul futuro di Wanbao Acc che intanto continua testardamente a sopravvivere, ma ha le ore (mesi) contate.

 

Per rimanere competitiva sul mercato, la Acc ha bisogno di investimenti che una gestione commissariale per definizione non può effettuare. Tutte le ipotesi di finanziamento studiate sono impantanate e si prefigura, così, una procedura di vendita con sbocchi indefiniti. Una navigazione a vista. Comunque in linea con la tesi di Giorgetti (e del premier Mario Draghi) contraria al sostegno statale per aziende che faticano a stare sul mercato. Con buona pace della pentastellata Todde, promossa viceministra ma praticamente separata in casa con il ministro. “La repubblica operaia di Mel è un incredibile miracolo industriale – dice Stefano Bona della Fiom – da oltre un anno e mezzo produce senza un centesimo di credito bancario o di altro supporto finanziario. Siamo un simbolo etico e politico: se il mercato rispetta Acc e le dà fiducia,

è incredibile che il governo non abbia ancora messo a disposizione di Mel i pochi milioni che la legge prevede siano erogati ad un’impresa vigilata dal governo stesso

La tenda di Piazza Castello

Hanno la tenda, ma non sono in vacanza. “Il campeggio non mi piaceva neanche da bambino”, dice Maurizio Ughetto, 48 anni, ex operaio dell’ex Embraco. Ogni mattina, con i suoi colleghi, arriva in piazza Castello, nel centro di Torino, sotto le finestre della Regione. Monta la tenda, lui che potrebbe portarci al mare il figlio di 17 anni, e la sera la smonta per riportarla casa. E tornare il mattino dopo. Lo fa da un mese e mezzo. “È l’ultima protesta che ci è rimasta”, confida.

Le 400 lettere di licenziamento ricevute dai lavoratori della ex Embraco di Riva di Chieri appese davanti alla sede della Regione Piemonte in piazza Castello, al presidio permanente. Torino, 19 maggio 2021 

 

Il 30 giugno scadeva l’ultimatum che sindacati, Regione, Comune e Diocesi di Torino avevano lanciato al governo perché dicesse una parola chiara sul progetto Italcomp, la società pubblico-privata che sarebbe dovuta nascere per acquistare la Acc di Mel, nel Bellunese, 300 operai, e l’Embraco di Riva di Chieri, 400, per farne il polo italiano di produzione di compressori per frigoriferi. Sarebbe, perché da otto mesi quel piano, messo a punto dalla sottosegretaria Alessandra Todde, quando al Mise sedeva Patuanelli, è rimasto solo sulla carta: investitori privati non se ne sono trovati, e nemmeno banche disposte a concedere garanzie per rilanciare le due aziende. L’Acc, che è in amministrazione straordinaria, nel frattempo è stata messa in vendita, nonostante abbia ordini per milioni di euro senza però i soldi per garantire la produzione e acquistare le materie prime. Il commissario Maurizio Castro per luglio ha programmato la realizzazione di 125mila pezzi, rinunciando ad altri 100mila già ordinati, per limitare il drenaggio di cassa. La gara per l’acquisto è scaduta due giorni fa. Il timore è che a presentare offerte per l’acquisto siano solo multinazionali interessate al know how e ai brevetti, pronte a saccheggiare l’azienda, delocalizzando poi in altri Paesi.

D’altra parte, è già successo. La storia di Embraco inizia così. Nel 2017, quando la Whirlpool che era proprietaria dello stabilimento sulla collina di Torino annuncia la volontà di spostare la produzione in Slovacchia dove il costo del lavoro è più basso. Si tratta per mesi, finché la multinazionale del bianco individua un’azienda, la Ventures spa di Gaetano Di Bari e Ronen Goldstein, interessata a rilevare stabilimento e gli operai, per produrre cubetti tipo Lego, biciclette elettriche e robot per la pulizia dei pannelli fotovoltaici. È marzo del 2018: il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e le istituzioni locali si fidano. L’alternativa era la chiusura. Per i 400 operai scatta la cassa integrazione con la promessa, entro un anno, di tornare al lavoro. Non succede: nel 2020 la Ventures fallisce e Di Bari finisce indagato per bancarotta fraudolenta. Il governo Conte bis pensa al piano Italcomp, che però nell’era Draghi perde quota. Secondo il ministro Giancarlo Giorgetti non si può fare perché violerebbe le regole europee. Inizia la ricerca di un partner privato a cui affidare la maggioranza della nuova società; anche in questo caso senza risultati, almeno finora.

 

 

La protesta in autostrada contro la chiusura dello stabilimento. Napoli, ottobre 2020 

I 400 sventurati continuano ad aspettare. Sono passati quattro governi e quattro ministri e loro sono sempre lì. Negli anni sono stati a Bruxelles, per chiedere all’Europa interventi contro la delocalizzazione selvaggia, a Roma di fronte al ministero e in piazza decine di volte. Ora la protesta è sotto la tenda verde: fa caldo e manca l’aria, come a loro manca il futuro. Sventolano, in quel poco di brezza concessa dal giugno torinese, le lettere di licenziamento, a partire dal 23 luglio. In extremis nel decreto Sostegni bis è stato inserito un emendamento che concede loro ancora sei mesi di cassa integrazione. Il curatore fallimentare deve definire gli ultimi dettagli, se si arriverà in ritardo sarà la Regione ad anticipare l’assegno, grazie a un accordo con le banche, già testato per altre crisi occupazionali. “Si arriva al 22 gennaio. E poi? Noi siamo stufi di ricevere sussidi, vogliamo solo lavorare perché il mercato c’è: devono darci una possibilità” sostengono i lavoratori che ormai da quattro anni vivono con gli ammortizzatori sociali.

 

“Sono entrato in azienda 21 anni fa, ho fatto tutte le lavorazioni, alla fine ero nella sala metrologica e pensavo di aver fatto non dico carriera, ma di essermi sistemato – ammette Ughetto – Ora vivo con 750 euro al mese: ci pago l’affitto e le spese, per fortuna mia sorella mi aiuta e faccio qualche lavoretto in giro. Risparmio su tutto: sono tre anni che non vedo il mare”. La sua storia è simile a quella dei colleghi. Alcuni sono tornati a vivere con i genitori, altri tirano avanti con il sostegno della Caritas o della Curia che periodicamente consegna loro i pacchi alimentari. Tra tutti coloro a cui gli sventurati dell’Embraco si sono rivolti in questi anni – premier, ministri, parlamentari – l’arcivescovo Cesare Nosiglia è tra quelli che non hanno mai fatto mancare il sostegno. Ha pagato i pullman per andare al ministero a discutere del futuro, ha celebrato la messa di Natale di fronte ai cancelli quando il picchetto era lì e non nel salotto buono di Torino. Quasi ogni mese organizza la distribuzione di pacchi spesa e la fila per ritirarli è sempre più lunga.

 

 

 

 

“Da giovane facevo il cassiere al bowling, mia moglie lavorava all’Embraco e mi ha convinto a cambiare. Sono stato lì 25 anni, ora ne ho 53. Cosa mi resta da fare?”, chiede Gianluca Ugliola. La stessa domanda se la pongono Davide, che di anni ne ha 48, e sua moglie Maria Luisa, 46, entrambi dipendenti Embraco. Non sono i soli: “Un dramma nel dramma. Prima avevamo due stipendi e da un giorno all’altro ci siamo trovati a dover sopravvivere con meno di uno, perché con la cassa arriviamo a 1.600 euro e io, da solo, guadagnavo di più”, racconta Davide. “Nel 2017 ho finito di pagare il mutuo della casa, speravo di poter finalmente godermi un po’ la vita e mettere via i soldi per far studiare i ragazzi. Uno di loro vuol fare lo chef e andare all’estero: ora non ho nulla da dargli. O mangiamo o facciamo altro. All’ultima manifestazione non sono andato: non era arrivata la cassa e non avevo i soldi per la benzina”. Davide ha mandato curriculum in tutte le agenzie interinali, ma niente. Un lavoro non lo trova nemmeno Luigi Durante, che di anni ne ha 40.

“Vivo con i miei genitori e sono single: non sarebbe la condizione ideale in tempi normali (sorride) ma in questa situazione almeno mi garantisce un supporto che altrimenti non avrei”. Valeria, il nome è di fantasia, perché la vergogna talvolta è più forte della disperazione, ha dovuto lasciare la casa in cui viveva in affitto con le due figlie. “Ora abita dai genitori che le hanno ricavato spazio in un sottoscala”, raccontano i colleghi. Sabato scorso, Ughetto è salito sul palco della manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil che si svolta in contemporanea a Torino, Firenze e Bari. È rimasto accanto a Maurizio Landini per tutto il tempo con in mano il cartello: “Lavoratori Embraco contro i licenziamenti”. Parole che campeggiano ogni giorno sulla piazza e continueranno a restare lì, sullo striscione sorretto dai lavoratori. “Finché qualcuno non ci darà ascolto”.

 

 

 

Il Sulcis dimenticato

Una lotta irriducibile per salvare posti e dignità del lavoro quella degli operai della ex Embraco. Così come la ‘madre’ di tutte le resistenze operaie che si combatte ancora alla ex Alcoa di Portovesme, il Sulcis dimenticato che dopo un decennio di battaglie, presidi e manifestazioni tra Cagliari e Roma, aeroporti occupati, traghetti bloccati, caschi tambureggianti sull’asfalto sotto le finestre ministeriali, intravede ora la rinascita dell’unica fabbrica italiana di alluminio primario. Pensata nell’epoca delle Partecipazioni Statali come riscatto dopo il tramonto della cultura delle miniere in Sardegna, e abbandonata nel 2014 dalla multinazionale americana che ha delocalizzato nel Nord Europa. Governo, Invitalia, Enel e Sace pressati senza soluzione di continuità dai sindacati, hanno costruito le condizioni – tra energia scontata, fidejussioni garantite e investimenti pubblici – affinché la nuova proprietà, il gruppo italosvizzero Sider Alloys, onori l’impegno di riaprire la fabbrica e sfornare al più presto il primo lingotto. Il futuro per 700 operai che dal 2012 vivono di soli ammortizzatori sociali e, nell’indotto, anche senza quelli. Ancora oggi fanno i turni al presidio abbarbicato ai cancelli della fabbrica: una baracca di legno, alluminio e bandiere sfilacciate, diventato il simbolo della lotta.

 

I dipendenti del principale produttore mondiale di alluminio Alcoa durante una manifestazione davanti al Ministero dell’Industria a Roma 

 

Ancora più a Sud un’altra resistenza operaia decennale. Termini Imerese, il sogno spezzato della Sicilia con la Fiat che nel 2011 ha chiuso la fabbrica perché produrre auto in quella terra costava troppo. Così si è passati dai tempi d’oro, quando quattromila operai sfornavano la Cinquecento, la Panda, la 126, a un migliaio di famiglie che, in una via crucis di nuovi e improbabili progetti, indagini giudiziarie, ammortizzatori sociali a singhiozzo, sono rimasti a presidiare i cancelli di una fabbrica sentita come una cosa loro. I commissari straordinari hanno ricevuto, e girato al Mise per le valutazioni, otto manifestazioni d’interesse. Progetti più o meno realizzabili, comunque sufficienti a tenere aggrappati gli operai aI sogno di un futuro industriale.

 

 

 

I residenti di Figline

Che invece sembra ormai impossibile a Figline Valdarno. Giusto tre anni fa la Bekaert, multinazionale belga leader mondiale nei fili d’acciaio (da quelli per gli pneumatici fino alle gabbiette dei tappi da spumante) chiudeva la fabbrica toscana, licenziava i 318 operai e spostava quella linea produttiva in Romania. Dopo l’annuncio davanti al consiglio di fabbrica, i dirigenti uscirono dallo stabilimento scortati dai carabinieri, temendo chissà quale protesta. Se ne sono andati e non sono più tornati. Gli operai, da quel giorno, hanno continuato a lavorare come se nulla fosse. Hanno assicurato la produzione in assenza di management finché sono arrivate le forniture. Poi, hanno presidiato giorno e notte i cancelli dello stabilimento per il timore che la proprietà piombasse lì a smontare i macchinari o a svuotare i magazzini. Anche Sting, che ha un casale da quelle parti, un paio di estati fa ha solidarizzato con gli operai improvvisando un mini-concerto davanti alla fabbrica. Negli anni successivi, mentre i governi promettevano vaghe soluzioni di rilancio, gli operai manifestavano a Milano, Roma a Bruxelles.

Infine, una cinquantina dei lavoratori in cassa integrazione, stanchi delle promesse della politica, ha deciso di prendere definitivamente in mano il proprio destino presentando un progetto di cooperativa tra lavoratori. Nessuno gli ha però dato fiducia e così, dopo il ricollocamento di una sessantina lavoratori in un’altra azienda del territorio, ora siamo di nuovo alle promesse, come la suggestione del polo dell’acciaio toscano che collegherebbe Figline a Piombino. A Piombino c’è la ex Lucchini, un’altra storia di crisi industriale che porta da anni in piazza gli operai e che lo Stato ancora non è riuscito a risolvere: anche l’ultima proprietà, quella del gruppo indiano Jindal, sta segnando il passo e si prospetta l’ingresso di Invitalia, dunque da qui a prefigurare un link con la ex Bekaert ci vuole davvero molta fantasia.

 

Il sostegno di Sting ai lavoratori Bekaert in presidio a Figline Valdarno, 18 agosto 2018 

 

 

L’assenza di una politica industriale

Proprio la siderurgia, con la via crucis dell’Ilva di Taranto e il tramonto, appunto, di Piombino altra capitale storica dell’acciaio italiano, è il simbolo della latitanza ormai endemica di una vera politica industriale nel nostro Paese. Ne sanno qualcosa le operaie e gli operai della Whirlpool di Napoli: mentre il settore degli elettrodomestici è in prima fila nel ‘rinascimento’ produttivo post-Covid del manifatturiero, con tassi di crescita a doppia cifra, la multinazionale americana non intende assolutamente fare marcia indietro sulla decisione di chiudere lo stabilimento di Napoli considerato economicamente non profittevole. Una decisione annunciata, senza se e senza ma, oltre un anno fa e nessun governo succedutosi nel nostro Paese è riuscito, nonostante le promesse (e le resistibili minacce al colosso Usa), a cambiare il destino dei 350 lavoratori della fabbrica di via Argine che continuano la loro battaglia sempre più tesa. “Non esistono solo i profitti – dice Carmen, operaia -.  Mio papà l’ha praticamente costruito questo impianto, insieme a tanti altri che hanno anche dato i terreni. Lui ha lavorato sempre alla Whirlpool, pure a Varese, e ora gli piange il cuore. Non se lo merita, non ce lo meritiamo. È la nostra fabbrica”.

 

 

 

Stesso discorso per un’altra industria del settore elettrodomestici: Elica, leader mondiale delle cappe per cucine e multinazionale controllata da Francesco Casoli (ex senatore di Forza Italia), ha annunciato la delocalizzazione in Polonia del 70% della produzione degli stabilimenti italiani, che sono da sempre nel cuore delle Marche, e un esubero di 400 lavoratori sui 560 totali nel nostro Paese. Gli operai hanno trascorso la Pasqua in presidio ai cancelli della fabbrica e da allora si sono susseguite le manifestazioni di protesta. Politica industriale assente anche a Flumeri, una manciata di chilometri da Avellino, dove “l’Industria italiana autobus” (Iia) sta provando a uscire dal tunnel una crisi decennale. L’Iia produce autobus (a Fumeri e nello stabilimento bolognese, per un totale di 800 addetti), ma nonostante l’intervento dello Stato (Invitalia e il gruppo Leonardo), paradossalmente non riesce a intercettare la domanda in crescita di trasporto sostenibile, accentuata dagli effetti della pandemia.

Quando esperti e politici si lamentano perché Paesi come la Francia mostrano i muscoli se si tratta di difendere i loro interessi industriali, dovrebbero anche ragionare su cosa ha fatto o sta facendo lo Stato italiano per sostenere il nostro sistema produttivo. E dove sono i nostri ‘capitani coraggiosi’ capaci negli ultimi decenni di puntare (e magari perdere pure) solo su settori monopolistici e a rischio ridotto, come le infrastrutture, le telecomunicazioni e l’energia. Sono le tante facce di un declino industriale che sta producendo le tensioni delle piazze italiane.

“C’è un grande sgretolamento del tessuto sociale – ha detto il leader della Cgil, Maurizio Landini –

un imbarbarimento delle relazioni umane. Così si mette a rischio anche la tenuta della democrazia. Dominano lo sfruttamento, la precarietà, l’insicurezza del lavoro. Si è passati dalla tutela al disprezzo del lavoro.

“I numeri dimostrano che non tutti i cittadini hanno pari dignità – sostiene l’ex ministro Cesare Damiano -. Intanto tra Nord e Sud, ma anche nell’ambito delle stesse regioni convivono sacche di arretratezza insieme a spinte dinamiche: l’intervento pubblico è ancora più doveroso non solo sul piano dell’equità e quindi delle tutele, ma anche su quello della crescita. È necessario inaugurare una stagione di investimenti per far ripartire l’economia”.

 

 

Tesi lontana da quella dell’economista Riccardo Gallo che ha trascorso un’intera vita di studio e di impegno amministrativo nello Stato: “In Italia le grandi imprese, quelle che avevano fatto innovazione negli anni Ottanta, sono molto diminuite di numero e quelle piccole hanno minor capacità di fronteggiare la crisi. Nel nostro Paese non si riesce neanche a dar vita a distretti industriali di nuova generazione e a distretti culturali evoluti. La ricetta per il rilancio? L’intervento pubblico per salvare imprese nella sostanza fallite non ha mai risolto nulla, dunque le aziende recepiscano le innovazioni per una loro convenienza economica, nel loro egoistico interesse, senza aiuti dello Stato che, da parte sua, deve solo creare le condizioni generali e infrastrutturali”.

 

Parole che evocano la linea del ministro Giorgetti, che sulla scrivania si è trovato lo stesso centinaio di dossier sulle crisi industriali, che avevano i suoi predecessori Patuanelli, Di Maio e Calenda. E che, probabilmente, lo stesso Giorgetti lascerà in eredità al suo successore. Intanto la resistenza operaia continua a presidiare i cancelli delle fabbriche e a scendere nelle piazze delle città italiane. Come un anno fa a Pontecchio Marconi, quando ai lavoratori della Fiac in presidio permanente contro la delocalizzazione dell’attività è arrivata una lettera di solidarietà del regista inglese Ken Loach: “I datori di lavoro progettano ogni cosa in funzione della massimizzazione della propria idea di efficienza, al fine di incrementare la propria ricchezza.

Noi abbiamo bisogno di sicurezza, nel lavoro, nella retribuzione, dell’assistenza sanitaria quando siamo ammalati, dell’istruzione per i nostri figli e della pensione quando saremo anziani. Più di questo abbiamo bisogno delle cose buone della vita: abbiamo bisogno del pane, ma anche delle rose. Restate forti.

 

 

 

L’INTERVISTA

L’esperto: “Un Paese senza politica industriale”

Se c’è in Italia chi può raccontare meglio di chiunque altro gli alti e bassi della manifattura nazionale, quella persona è Giampietro Castano. Settantacinque anni trascorsi, come dice lui, “facendo un unico mestiere, le relazioni industriali”. Ha lavorato nelle aziende pubbliche (Enel) e private (capo dell’Olivetti), nel sindacato (prima la Fim-Cisl poi la Fiom-Cgil), per approdare infine al ministero dell’Industria (il Mise, si chiamava così) chiamato da Pierluigi Bersani nel governo Prodi. Era il 2007 e da allora, per undici anni senza soluzione di continuità si è occupato dei tavoli delle crisi industriali. Un ruolo svolto per gli esecutivi di ogni colore e con ministri di centrosinistra, centrodestra o ‘tecnici’: da Scajola all’interim di Berlusconi, da Romani a Passera, da Zanonato alla Guidi, da Calenda a Di Maio. “Un anno dopo il mio debutto è arrivata la crisi finanziaria globale del 2008. Ci fu un crollo della produzione mai visto fino ad allora. Andò giù del 25%”. Oggi Castano svolge attività di consulenza aziendale.

Come si affrontavano un tempo le crisi industriali?
“Con Cassa integrazione à gogo. Una ‘droga’ essenziale per attutire una situazione sociale problematica, anche perché non esistevano altri strumenti a parte l’ultima spiaggia delle amministrazioni straordinarie, quasi sempre anticamera della chiusura. Uno studio della Bocconi spiega che ancora oggi l’80% delle procedure commissariali sfocia nel fallimento. Comunque si trattava di casi singoli, non di un’emergenza sistemica come è diventata successivamente”.

Cosa avete aggiunto, quindi, agli ammortizzatori sociali?
“Le reindustrializzazioni. Cioè una soluzione che fosse non solo sociale ma anche industriale. Far incontrare domanda e offerta non solamente lavorative. Nelle crisi delle imprese più grandi, come ad esempio la Electrolux, spesso si trattava di riorganizzazioni aziendali interne attraverso il recupero dei lavoratori che uscivano dalla cassa integrazione e le uscite incentivate. Negli altri casi, quando affrontavamo vere e proprie chiusure, la strategia era quella di non far comunque perdere ai territori le fabbriche, i macchinari e gli immobili, studiando una qualche continuità produttiva o una differenziazione di prodotto. Soprattutto al Sud c’è uno spreco di risorse riutilizzabili, intere aree abbandonate. A Caserta, per dire, esisteva un polo della componentistica elettronica oggi deserto. A Marcianise lo stabilimento della Olivetti è stato assorbito dal bosco”.

Non è, però, che le reindustrializzazioni abbiano raggiunto grandi risultati. Da decenni i tavoli di crisi sono sempre gli stessi.
“Servirebbe, come in Francia, una legge che obblighi l’impresa che se ne va a un piano di reindustrializzazione con le relative risorse. Un percorso che coinvolge lo Stato, l’azienda e i lavoratori”.

Come dimostra il caso della Whirlpool di Napoli, gli operai sono molto restii a cambiare tipo di produzione. Quella fabbrica e quel prodotto li sentono, giustamente, come una parte di loro.

“Credo che il sindacato in Italia sia troppo conservatore. Si limita a difendere il proprio terreno, manca di capacità di indirizzo. Invece dovrebbe cominciare a fare scelte coraggiose, come succedeva un tempo. L’inquadramento unico operai-impiegati, tanto per ricordare, è una cosa ambiziosa realizzata in passato dai sindacati”.

Solo il sindacato deve fare mea culpa? La politica e gli imprenditori li assolviamo?
“Da anni in Italia non si fa politica industriale. L’unica eccezione è stata industria 4.0, comunque un intervento di semplice finanziamento”.
E gli imprenditori?
“Mancano di coraggio. Oltretutto c’è una crisi di managerialità. Prenda ad esempio un settore dove il nostro Paese va bene, la moda: in Francia ci sono gruppi di grandi dimensioni, mentre qui non riusciamo a mettere d’accordo Armani e Dolce&Gabbana. Stesso discorso per i siderurgici privati”.

 


Sardegna 2018, il doc sulle speranze tradite

 

Fino a quando l’ultimo. Sulcis e ex Alcoa, storia di una resistenza operaia

 

 

La ex-Alcoa è il simbolo della “resistenza” operaia. Nel dicembre 2018, soprattutto grazie alle battaglie dei lavoratori, l’arrivo di un nuovo proprietario, il gruppo svizzero SiderAlloys, ha fatto sperare in una ripresa dell’attività. Ma il futuro per settecento dipendenti è rimasto incerto.
Da un’idea di Marco Patucchi, regia di Bruno Bigoni

(tutti i video e i grafici cliccando il link sotto riportato)

 

Sorgente: Industria italiana: le crisi aperte e la bomba sociale. Non solo Ilva – la Repubblica

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