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(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Non erano passati dieci minuti dall’annuncio della sua morte che i social erano già pieni dei coccodrilli delle prefiche eccellenti.

Francamente in passato non l’avevo mai apprezzata, Raffaella Carrà, le imputavo il contributo dato al processo di infantilizzazione di uno strapaese che tentava la fortuna sparando il numero dei fagioli nel fiasco, mi irritava quella ostentazione di ingenua e ruspante ignoranza che gli influencer del tempo esibivano per mettersi al livello del popolino televisivo. In passato, ammetto, perché negli anni invece avevo finito per ammirarla a paragone con altre e successive icone pop, per la conversione delle carrambate nelle missive farlocche propedeutiche ai miserabili show della realtà parallela del berlusconismo, l’amministrazione della giustizia in Forum,  i consumi famigliari in Ok il prezzo è giusto, l’istruzione coi quiz della Ruota della Fortuna fucina di giovani talenti politici.

Ecco, a ripensarci Raffaella Carrà ha invece incarnato un’Italia ancora innocente, ancora bigotta tanto da scandalizzarsi per un ombelico maliziosa  in mostra, ma che aveva votato per la legalizzazione dell’aborto e per il divorzio, nostalgica dei reali tanto da entusiasmarsi per dinastie minori che riempivano i settimanali per famiglie, ma piena di aspettative per le meraviglie del progresso che avrebbe trovato spazio per gli esuberi su Marte, curato le malattie con Telethon, e che permetteva ai nostri emigranti e grazie alla televisione di riunirsi a parenti, antiche fidanzate, in incontri grondanti retorica ma anche autentica commozione.

Grazie a lei passavano sullo schermo e entravano in casa figurine esemplari, l’operaio, la balia, il contadino e il cuoco non ancora promosso chef, personaggi gentili di un presepe schernito dalla cultura alta che non le ha dedicato nemmeno una fenomenologia a differenza del più furbo Mike.

Grazie a lei alcuni miti fondativi uscivano dai sussidiari  e diventavano storie personali e  collettive  e ben prima del trasferimento online dei divanetti  freudiani  un tanto al chilo, realizzando una psicoanalisi collettiva dei buoni sentimenti e dei vizi degli italiani brava gente, quelli per i quali emigrante e immigrato non erano ancora parole tabù, quelli che provavano vergogna per i sentimenti di paura, rancore, diffidenza, li provavano ma non li mostravano come virtù civiche.

A veder scorrere il compianto delle autorità, della Rai, degli opinionisti e degli intellettuali che la irridevano ma poi correvano nei suoi salotti pronti a contare i fagioli e a ballare il tuca tuca, è giusto ricordare che sono loro quelli che hanno contribuito a distruggere quell’Italia, provinciale, conservatrice, risparmiatrice, impiegatizia, che pareva una finzione ma che era più vera della rutilante società “da bere”,  per colonizzarla anche nell’immaginario con le famiglie di Dallas e Beautiful, con le ambizioni delle veline, con Di Vittorio, Mattei, Olivetti che diventano pallide imitazioni degli attori protagonisti, con la lotta alla mafia in sette stagioni su Rete 4 o su Rai 1, con la violenza sulle donne a puntate e i processi officiati dalle sciure della cronaca nera.

Ma la colpa è anche di chi ha voluto perderla quell’innocenza, per sognare quei sogni, non volendo sapere che si sarebbero trasformati in incubi, che quelli che la criticavano perché  faceva una tv popolare, erano impegnati a trasformare il popolo in massa di consumatori e poi in  esercito di esecutori e non solo di telecomandi, condannato a nuove e antiche ignoranze senza sorriso e senza speranza.

Sorgente: Carrà, voce di una innocenza perduta – infosannio

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