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di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Shengal, xx giugno 2021, Nena News – La casa di un solo piano ha forme arrotondate e color crema. Fuori il giardino è ricoperto di sterpaglie. Due finestre sono murate. Appena si entra, appare la porta di una cella. Nella prima stanza l’attenzione è attirata da un buco sul muro. «L’ha aperto l’Isis, durante i combattimenti, per scappare senza farsi vedere dalle forze curde», ci dicono. All’interno ci sono sei stanze, per terra bottiglie d’acqua vuote, scarpe da donne impolverate, brandelli di vestiti, cucchiaini di plastica.

Sulla parete di una camera senza finestre è stata disegnata una freccia rossa: «Così i miliziani islamisti indicavano la direzione della Mecca». Questa casa, nel villaggio di Tilezer nella piana di Ninive, era una prigione per le donne ezide schiavizzate dall’Isis durante l’occupazione della regione di Shengal (Sinjar in arabo). «È rimasta nelle mani dell’Isis fino al 29 maggio 2017 – ci racconta Faris Harbo, responsabile della diplomazia dell’amministrazione dell’autonomia di Shengal – Quando le forze di autodifesa ezida Ybs e le milizie sciite sono arrivate, gli islamisti sono scappati senza combattere. Sono entrato in quella casa. C’erano i segni di quello che era successo lì dentro. Ma nessuna donna. Non ce n’era più nessuna».

La casa-prigione delle donne egide nel villaggio di Tilezer (Foto: Chiara Cruciati)

La casa-prigione delle donne egide nel villaggio di Tilezer (Foto: Chiara Cruciati)

In quelle sei stanze erano state rese schiave dopo il massacro del 3 agosto 2014, almeno 10mila uccisi. Quel giorno in poche ore gli islamisti hanno occupato questa regione nel nord-ovest dell’Iraq, togliendola al molle controllo di peshmerga ed esercito iracheno. I soldati di Erbil e di Baghdad si sono ritirati senza combattere mentre lo Stato islamico proseguiva nella sua avanzata irachena, appena due mesi dopo la presa (in 48 ore) di Mosul, trasformata in poche settimane nella seconda capitale del «califfato» insieme alla siriana Raqqa.

I 500mila ezidi di Shengal hanno tentato di difendersi, con le poche armi e munizioni a disposizione: «Le armi migliori, quelle arrivate dalla Germania, sono state convogliate su Erbil. A noi hanno lasciato i fucili degli anni Settanta», dice un ezida ex membro del settimo battaglione dei peshmerga. Shengal è caduta in sette, otto ore. Come il villaggio di Girzerik: gli islamisti hanno ucciso gli uomini, rapito le donne, seppellito 74 persone in una fossa comune di fronte a una bella casa di due piani. Sopra le montagnole di terra hanno preso il sopravvento ciuffi di cardi. Nessuno ha mai riesumato quei corpi: la zona è piena di mine, eredità dell’Isis in fuga, e le richieste di intervento alle autorità di Baghdad sono ancora senza risposta.

Intorno c’è un villaggio fantasma. L’intera popolazione è scomparsa, uccisa o fuggita. Per anni Girzerik è stato interamente in mano allo Stato islamico , fino alla liberazione di Shengal City nel novembre 2015 e del resto delle comunità nei mesi successivi. Negozi sventrati, erbacce che si sono fatte strada nel cemento, sui muri i segni della battaglia tra islamisti e le unità di autodifesa del Rojava, Ypg e Ypj.

E poi immondizia dentro le case, sedie rotte, un frigorifero spento, saracinesche divelte. Il panorama è spiazzante, strade di cemento assolate senza anima viva. Un orizzonte diverso ma uguale a quello della città vecchia di Shengal City. Lì sono le macerie a narrare la guerra, gli scontri strada per strada tra islamisti e curdi e i bombardamenti americani, lanciati da Obama proprio nell’agosto 2014, quando il mondo scoprì la popolazione ezidi con la sua fuga sul monte Sinjar, senza cibo, acqua né ripari.

Le case sono svuotate, accartocciate su se stesse, pezzi di ferro liberati dal cemento puntano in ogni direzione. Nessuna ricostruzione in vista, mancano i soldi sì ma i piani sono comunque altri, spiega il co-presidente dell’Assemblea del popolo di Shengal, Haso Hibraim: «Non vogliamo ricostruire, vogliamo che quelle macerie restino dove sono a riprova del massacro subito dal nostro popolo».

Lassù, sul monte Sinjar, con temperature di 45 gradi, con in braccio solo i figli, le famiglie ezide sono arrivate a piedi per lasciarsi alle spalle la ferocia dello Stato islamico. Sono saliti in montagna, per giorni senza cibo né riparo, finché le Ypg e le Ypj arrivate dalla vicina Rojava, insieme a combattenti del Pkk, sono riuscite ad aprire un corridoio umanitario verso la Siria del Nord e il Kurdistan iracheno.

Di quegli sfollati la metà non sono ancora tornati: 250mila si dividono tra i campi profughi, troppo spaventati per tornare o senza una porta di casa da riaprire, e tra la diaspora in Germania. Moltissime donne non sono ancora state trovate, almeno 1.117 delle 5mila rapite nell’agosto 2014 e rese schiave, vendute al mercato di Mosul, passate di mano in mano, stuprate innumerevoli volte.

Il cimitero dei martiri sul monte Sinjar (Foto: Chiara Cruciati)

Il cimitero dei martiri sul monte Sinjar (Foto: Chiara Cruciati)

Sul monte però è successo anche altro. La comunità ezidi si è ricomposta e ha iniziato a lavorare sul proprio futuro. L’influenza della teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan e del confederalismo democratico del Rojava, penetrati e assorbiti insieme alla controffensiva contro l’Isis, è diventata un modello possibile.

È così nata l’autonomia di Shengal, regione storicamente contesa dai pesi massimi e anche da quelli minimi regionali, dalla Turchia e i suoi sogni di gloria pan-turchi (non a caso qui i caccia di Ankara hanno sganciato bombe dopo la cacciata dell’Isis) al governo centrale di Baghdad fino a quello regionale del Kurdistan iracheno.

Sorgente: IRAQ. L’autonoma Shengal nata in montagna

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