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(Gioseppe Di Maio) – L’impressione che con le riaperture i prezzi delle merci e dei servizi siano schizzati alle stelle, non è più un’impressione. Si lamenta chi va dal barbiere, dal meccanico, chi va a cena fuori, chi parte per le vacanze e chi fa la spesa in città. La lunga astinenza da incassi e i magri ristori hanno dato nuovo impulso alla macchina del profitto. I prodotti e i servizi sono gli stessi, anzi, in parecchi casi peggiori, ma i prezzi sono aumentati quasi per chiedere un indennizzo all’intera società che ha voluto per così tanto tempo chiudersi in casa e ridurre i consumi.

Già nel suo primo articolo la nostra Costituzione fu frutto di un compromesso. La repubblica dei proprietari cedette a quella dei lavoratori e l’Italia divenne una repubblica fondata sul lavoro. Ma solo a chiacchiere. Secoli di cultura cattolica e altri di ascesi laica hanno dato al lavoro un primato fondativo della nostra civiltà, tuttavia questo era destinato a soccombere nel suo rapporto col Capitale. Dopo gli anni del dopoguerra, che i francesi chiamarono i “trente glorieuses”, il Capitale ha acquistato un potere sempre crescente fino agli eccessi della sua finanziarizzazione, totalmente slegata dalla pratica del lavoro.

I salari sono diventati miserabili ogni qualvolta hanno dovuto remunerare funzioni sostituibili e lavoro generico. Il “disprezzo del lavoro”, di cui persino Landini si è fatto segnalatore nell’intervista di Roberto Mania, è la conseguenza del dominio oppressivo del denaro sull’uomo, e non mette a rischio solo la democrazia ma l’intera civiltà. Se il lavoro non serve più a creare un cittadino, ma uno schiavo del salario, tutta la società diventa un lager dove si estorce il plusvalore a scapito di qualsivoglia altro obiettivo. La legislazione del lavoro lo dimostra.

Com’è possibile, ad esempio, aver evoluto una giurisprudenza attentissima alle questioni di genere e incapace di applicare leggi e orientamenti equivalenti nei tribunali del lavoro? Come mai non abbiamo ancora leggi sul mobbing? E com’è possibile, con un onere della prova a comando, che i giudici si accaniscano tanto a sezionare i legami familiari, e a valutare a volte impercettibili abusi nella discriminazione sessuale e razziale, quando invece si arrestano sempre davanti ai contratti di lavoro e allo strapotere del padronato?

Ecco come si produce una società disperata. Una società che ha sempre più coscienza di quanto il denaro sia tutto, e il lavoro e i lavoratori non valgano niente. Difatti, nella prigionia del denaro e delle sue regole ognuno è assillato dai propri obblighi, senza pietà, senza umanità: giacché non c’è tempo, non c’è guadagno. E allora spingi l’acceleratore, pur sapendo che davanti a te c’è un uomo, ma con i diritti affievoliti: perché è straniero, perché è un facchino, uno schiavo; e te lo trovi sotto le ruote prima ancora di aver veramente pensato. Eppure, dopo la pandemia, dopo questa imprevedibile avventura collettiva, avevamo creduto di diventare tutti migliori. Purtroppo dopo il virus ci attendeva il denaro, e l’obbligo del profitto non ci può fare migliori.

Sorgente: Fondata sul lavoro – infosannio

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