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Il governo degli Stati uniti dovrebbe ammettere che il suo imperialismo in America Centrale ha spinto milioni di persone a fuggire. La vicepresidente in Guatemala ha invece avuto il coraggio di dire agli aspiranti migranti: «Non venite»

Quando abbiamo sentito parlare per la prima volta del piano della vicepresidente Kamala Harris per affrontare le «cause profonde» della migrazione in America Centrale e Messico, abbiamo pensato che volesse cimentarsi con la storia dell’imperialismo statunitense nella regione. Piuttosto che usare il suo viaggio in America Centrale come un semplice servizio fotografico, forse avrebbe dovuto riconoscere il ruolo degli Stati uniti, il loro passato controverso e i suoi effetti nel presente.

Ma, anche se apprezziamo gli sforzi per porre fine alla tratta di esseri umani e arginare la corruzione, qualcuno crede che in questo modo si possano affrontare le cause profonde dell’immigrazione? Qualcuno pensa che promuovere lo «sviluppo economico» espandendo la presenza di aziende straniere in Centro America rallenterà l’immigrazione? Qualcuno immagina che intimare loro insensatamente di «non venire» migliorerà la sorte degli aspiranti migranti?

Piuttosto che affrontare le cause profonde, il governo degli Stati uniti continua a considerare l’America centrale come una fonte di manodopera a basso costo, un esportatore di materie prime e un’opportunità di investimento per aziende come Nestlé. Eppure l’impatto di Nestlé nell’Asia meridionale è deplorevole quanto quello della United Fruit Company in America centrale. Entrambi hanno dato vita a relazioni neocoloniali che hanno reso schiave le popolazioni locali, hanno fondato gerarchie razziali e di genere, fomentato colpi di stato e sovvertito la democrazia e l’autodeterminazione. Invece di rompere col passato, l’approccio di Harris lo reitera, rafforzando il potere delle élite dominanti e delle multinazionali di fare ciò che desiderano.

Le reti migratorie dal Messico e dall’America centrale verso gli Stati uniti si sono affermate in contemporanea all’inizio di speculazioni statunitensi nella regione. Queste società – la Rosario Mining Company nel 1850, la United Fruit and Standard Fruit Company nel 1890, la Cananea Mining Company nel 1900 – hanno costruito «zone americane», introdotto sistemi di lavoro razzialmente stratificati e creato cittadini di seconda classe. Le industrie estrattive hanno sottratto risorse naturali alle terre indigene e afro-indigene. Cui hanno fatto seguito repressioni, sparizioni, torture e uccisioni di civili e contadini.

Harris non si è recata in Honduras o in El Salvador, due paesi da cui migliaia di persone sono fuggite negli ultimi anni. Ma, fino a oggi, gli Stati uniti riversano denaro in iniziative di «sicurezza» e operazioni economiche che militarizzano il paese e delle quali beneficiano solo i ricchi. Il regno corrotto e legato al narcotraffico del presidente honduregno Juan Orlando Hernández che ha devastato il paese è stato reso possibile da un colpo di stato del 2009 sostenuto dagli Stati uniti. El Salvador – governato da Nayib Bukele, un neoliberista sprezzante della democrazia – deve ancora riprendersi dall’intervento degli Stati uniti negli anni Settanta e Ottanta, che ha generato l’omicidio di ottantamila civili e costretto altre migliaia di persone a fuggire.

L’idea che la migrazione forzata possa ora essere rallentata aprendo una fabbrica Nestlé o consentendo agli investitori di costruire le cosiddette zone di libero scambio o promuovendo un’altra industria estrattiva presuppone che questo sia sempre stato un buon modello per l’America centrale. Non importa quanto venga riverniciato dalla politica buonista dei Democratici, non è ancora la risposta.

Harris ha ragione quando dice che «la maggior parte delle persone non vuole abbandonare la propria casa». Ma riciclare le politiche del passato senza affrontare le cause profonde della crisi in Centro America e Messico assicura che le persone continueranno a venire negli Stati uniti disperate.

Non abbiamo bisogno di ulteriori azioni segrete e colpi di stato. Non abbiamo bisogno di altre intromissioni nelle elezioni o di sostegno ai narco-dittatori o di guerre militarizzate alla droga. Abbiamo bisogno, come una volta Ella Baker esortò a fare, di arrivare alle radici del fenomeno e coglierne la causa principale. E questo ha a che fare con l’impero americano.

*Suyapa Portillo Villeda è professoressa associata al Pitzer College e autrice di Roots of Resistance: A Story of Gender, Race, and Labour on the North Coast of Honduras, che si occupa della cultura della resistenza della classe operaia in Honduras. Miguel Tinker Salas è professore di storia e studi chicanos e Latinos al Pomona College e autore di The Enduring Legacy: Oil, Culture, and Society in Venezuela. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

Sorgente: Ciò che Kamala Harris non dice – Jacobin Italia

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