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Un’operazione di intelligence. Non per spiare le basi Nato ma per ottenere tutti i segreti sul Covid e sul modo di contrastarlo. Ecco come la missione “Dalla Russia con Amore” ha permesso al Cremlino di difendersi dal virus e realizzare di corsa Sputnik-V. Ingannando il governo italiano.

Quando nella tarda serata di domenica 22 marzo 2020 sulla pista di Pratica di Mare si sono aperti i portelloni dei grandi Ilyushin decollati da Mosca, nessuno degli ufficiali italiani mandati ad accoglierli aveva la minima idea di cosa stessero scaricando. Ventiquattr’ore prima, l’arrivo del contingente militare era stato concordato in un colloquio telefonico tra il presidente Putin e il premier Conte, che aveva spiazzato sia la Farnesina sia i generali tagliandoli fuori dall’organizzazione di quella spedizione senza precedenti: una missione dell’esercito russo nel territorio di un Paese della Nato. Ma in quelle giornate disperate, con il Covid che faceva strage nelle città lombarde, alleanze e relazioni geopolitiche parevano passate in secondo piano. Uno dopo l’altro tredici quadrireattori sono atterrati nell’aeroporto a pochi chilometri da Roma, facendo scendere donne e uomini in tuta mimetica accompagnati da ventitre camion. Solo una volta iniziato lo sbarco, i russi hanno consegnato una lista con 104 nomi dattiloscritti e altri due aggiunti a penna: Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov. I due epidemiologi russi più influenti, unici civili in una task force del ministero della Difesa, che da allora in poi saranno tra i referenti del Cremlino nella lotta contro la pandemia.

Proprio da questi ultimi nomi bisogna partire per cercare di rendersi conto di cosa è realmente stata la spedizione russa a Bergamo. Un’operazione che alcuni analisti in tutto il mondo cominciano a studiare come un modello di “competizione ibrida” o “guerra irregolare” perché è servita a garantire a Mosca una momentanea supremazia nel settore in cui tutte le potenze si stavano confrontando. Con una triplice manovra, convergente sulla martoriata provincia lombarda: acquisire le informazioni necessarie a proteggere la Russia dal coronavirus; lanciare una campagna di propaganda interna ed internazionale; contribuire a mettere a punto il primo vaccino in grado di contrastare l’epidemia. “Dalla Russia con amore” è stata soprattutto una grande operazioni di spionaggio. Non contro le installazioni militari italiane e neppure contro le basi della Nato. L’obiettivo era un nemico molto più feroce, che in quel momento in tutto il pianeta era considerato la minaccia suprema: il Covid. In Russia i casi ufficialmente censiti erano pochissimi, 648, senza nemmeno un morto: bar e ristoranti venivano affollati, non c’era neppure il “distanziamento sociale”. L’Italia invece era travolta dalla catastrofe: 80.539 positivi e 8.165 decessi. A Bergamo si contano 7.458 contagiati e la “fame d’aria” rende difficile trovare bombole d’ossigeno: il 18 marzo le immagini dei camion dell’Esercito che trasferiscono le bare hanno fatto comprendere quanto fosse drammatica la situazione. Per questo le migliori risorse dell’intelligence biologica russa sono sbarcate nel nostro Paese: hanno preso posizione nell’epicentro della pandemia, lì dove si stava accanendo con maggiore crudeltà, raccogliendo i dati decisivi per combattere il virus. Quelli che non erano riusciti ad avere da nessun altro Paese.

 

 

Neppure la Cina, uno stretto partner del Cremlino anche in campo militare, ha permesso l’accesso agli specialisti russi: si sono limitati a fornirgli consigli per teleconferenza. Invece l’Italia, storico membro della Nato, gli ha aperto le porte senza porre condizioni. Senza neppure avere garanzie sulla condivisione delle ricerche: gli studi realizzati dagli scienziati della brigata di Mosca non sono mai stati comunicati alle istituzioni italiane. La direzione dell’ospedale Giovanni XXIII e il ministero della Salute hanno confermato a Repubblica di non avere ricevuto nulla dagli epidemiologi e dai virologi dell’ex Armata Rossa, attivi per un mese e mezzo in Lombardia. Che invece sulle riviste pubblicate in patria hanno poi spiegato di avere fatto tesoro delle lezioni apprese in Italia, usandole per allestire terapie, farmaci, macchinari, piani d’azione. Bisogna subito riconoscere che i soldati russi negli ospedali di Bergamo hanno realmente offerto un aiuto concreto, curando decine di pazienti nell’ora più buia della storia recente e hanno sanificato dozzine di centri per anziani, spesso dimenticati dalle nostre autorità. Il problema è che questa attività non si concilia con il profilo del personale spedito da Mosca: le eccellenze nella ricerca scientifica hanno svolto nelle corsie e nelle Rsa un lavoro di manovalanza. “Abbiamo mandato in Italia il meglio del meglio – ha detto il vertice dell’Accademia medica militare Kirov di San Pietroburgo – figure di altissimo livello”. Ma come hanno poi dichiarato alcuni dei protagonisti, l’operazione “Dalla Russia con amore” è servita a fare incetta di dati sul coronavirus e mettere a punto tattiche e strategie del Cremlino contro la pandemia. In pratica, hanno dato una mano e si sono portati via la testa.

Attenti a quei due

A Pratica di Mare nessuno ha fatto caso ai due nomi aggiunti a penna alla lista: Natalia Yurievna Pshenichnaya e Aleksandr Vladimirovich Semenov. Lei è la vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche; lui appartiene all’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Fanno capo al vertice di Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile che vigila sulla salute dei russi e a cui Putin già dal 27 gennaio ha affidato la supervisione del contrasto all’epidemia. Sono tra i migliori virologi del Paese, con decine di pubblicazioni scientifiche all’attivo. Poche settimane prima, entrambi erano stati anche a Wuhan, inquadrati nella grande delegazione internazionale dell’Organizzazione mondiale della Sanità. In Cina erano rimasti una settimana, partecipando a una serie di incontri sotto stretta vigilanza dei funzionari di Pechino. “Alcuni dei membri della missione in Italia erano stati mandati in Cina dal ministero della Difesa – ha spiegato subito l’analista militare Dmitry Safonov al quotidiano Izvestia, molto vicino a Putin – ma quelli erano viaggi brevi non un’operazione ad ampio raggio come quella di Bergamo. Le loro informazioni ci permetteranno di preparare le contromisure per impedire la diffusione del Covid in Russia”. L’attività della coppia non è mai stata negoziata o autorizzata dall’Italia: si sono semplicemente imbucati tra il contingente militare. I due resteranno in Lombardia dal 22 marzo al 9 aprile 2020. “Il mio compito – ha dichiarato Pshenichnaya – è stato quello di perfezionare la conoscenza dei medici russi sui metodi per trattare i pazienti con infezioni respiratorie acute e farli familiarizzare con le procedure di gestione del Covid adottate nei diversi Paesi”. Due mesi dopo pubblicheranno un paper sulla situazione italiana, in russo e in inglese, con giudizi spietati sulle iniziative del nostro governo. Come è accaduto da noi, i due virologi sono poi diventati star dei media, intervistati da televisioni e giornali, dove ancora oggi discettano di varianti e vaccini. Nel corso del 2020 Semenov nei suoi interventi ha più volte rassicurato che “siamo in grado di impedire che da noi si sviluppi una situazione all’italiana”.

I protagonisti

 

 

Pshenichnaya però dà un valore politico alle sue ricerche. Illuminante. Nel settembre 2020 scrive un testo con la professoressa Larisa Lvnova Khopiorskaya in cui analizza come “il coronavirus ha determinato nuovi parametri per costruire l’ordine mondiale”. È una sorta di manifesto, che aiuta a capire le ragioni strategiche della spedizione a Bergamo. Russia e Cina, dove la lotta contro la pandemia è stata la priorità degli Stati, sono ovviamente il modello positivo che si impone a livello planetario. E l’Italia ha fatto bene a chiedere il loro soccorso, ricevendo aiuti e medici, perché gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali hanno pensato prima alla salvaguardia dell’economia e poi alla salute delle persone. In pratica, le popolazioni più ricche sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto al virus mentre Mosca e Pechino non solo hanno protetto i loro cittadini ma hanno anche sostenuto chi si è rivolto a loro. Nel saggio la questione italiana è centrale. Vengono persino attaccati gli articoli di Repubblica e Stampa critici nei confronti della missione russa a Bergamo, sostenendo che il gruppo Gedi ha alimentato una campagna di disinformazione. Perché lo avrebbe fatto? “Lo si comprende nel contesto del referendum del luglio 2020 che riconosce i valori tradizionali del popolo russo, piuttosto che i valori liberali”. Si tratta della consultazione che ha permesso di rinnovare la presidenza di Putin oltre il limite due mandati consecutivi, abbattendo ogni sbarramento costituzionale al suo potere. Secondo Pshenichnaya e Khopiorskaya la partita globale riguarda proprio la rinuncia ai principi delle democrazie liberali e alle vecchie alleanze in favore delle priorità imposte dall’emergenza sanitaria.

 

Coronavirus, l’ambasciatore di Mosca: “Russi in Italia per interesse? Conte offeso come Putin”

“Siamo a favore della libertà di stampa e di parola, ma la libertà di parola prevede anche la responsabilità per quelle che vengono diffuse al pubblico”. Nel giorno in cui si conclude la missione ‘Dalla Russia con amore’, l’ambasciatore russo in Italia Sergey Razov torna a parlare della vicenda legata agli articoli pubblicati su Repubblica e La Stampa per rimarcare le intenzioni russe della missione: “Certe pubblicazioni pesano sulla coscienza dei loro autori se questi sanno che cosa è la coscienza. Tutto quello che abbiamo fatto qui è stato il risultato della comprensione reciproca e delle richieste del governo italiano”. Di Andrea Lattanzi

 

“Molte nazioni hanno abbandonato l’idea di un ordine mondiale basato sul concetto di “centro di potere” spostandosi sull’idea di “centri di attrazione”: Stati che sono in grado senza assistenza esterna di garantire il funzionamento del sistema sanitario e preservare la salute dei loro cittadini”. E concludono: “Bisogna prepararsi a fronteggiare la seconda ondata dei contagi e le minacce delle pandemie future, ma è ugualmente importante tenere conto della dimensione politica e di politica estera del coronavirus che sta ricostruendo l’ordine mondiale su nuovi valori, rendendo i medici protagonisti delle relazioni internazionali e facendoci pensare allo sviluppo di una nuova disciplina medico-diplomatica”. È come se togliessero la maschera e mostrassero il vero volto dell’operazione “Dalla Russia con amore”: non più una disinteressata iniziativa umanitaria ma il capitolo chiave di un’offensiva per riscrivere l’ordine mondiale cavalcando il Covid. Mosca vede nella pandemia l’occasione per ribaltare il sistema, incuneandosi nell’emergenza con gli aiuti e con la propaganda. L’obiettivo è mostrare la debolezza dell’Occidente e la crisi dei suoi valori, esaltando invece la forza dei regimi nell’affrontare e risolvere i problemi. Un messaggio rivolto all’estero e in patria, proprio in vista del referendum costituzionale. Si tratta di una competizione per riscrivere le mappe geopolitiche del pianeta: quello che un tempo si otteneva con i conflitti armati e ora invece la dottrina del Cremlino mira ad ottenere con “le guerre ibride”. Quelle in cui si punta alla vittoria senza sparare un colpo. Ma dove a muovere tutte le pedine sono sempre i generali.

Il generale dei gas

La spedizione bergamasca era agli ordini diretti del ministro della Difesa Sergei Shoigu, l’uomo che dal 2012 ha ricostruito la macchina bellica russa e l’ha convertita alla nuova visione del confronto, elaborata dal comandante delle forze armate Valery Gerasimov: nel mondo infatti viene chiamata “Dottrina Gerasimov”.

 

Da sinistra: Valery Gerasimov comandante delle forze armate e Sergei Shoigu, ministro della Difesa
 

La guida degli uomini mandati in Italia viene affidata al generale Sergej Kikot, un ufficiale con una lunga esperienza maturata anche in Siria, dove si è fatto notare per avere negato l’impiego di armi chimiche da parte del regime di Damasco. La sua presenza a Bergamo è difficile da giustificare. È uno dei più grandi esperti mondiali di guerra biologica e ha l’incarico di numero due del RKhBz, la rete dei reparti chimico-batteriologici che conta oltre 22mila uomini. Invece dalle stanze dell’hotel San Marco di Bergamo si occupa di poco più di cento persone. Non solo. Il 18 marzo tutte le unità dello RKhBz dalla Siberia al Baltico vengono mobilitate per una esercitazione collettiva: devono dimostrare di potere reagire all’avanzata dell’epidemia. Si decide anche di creare una task force aerotrasportata, pronta a trasferirsi nella zona dei focolai. La situazione è tranquilla, con pochissimi casi di contagio, mentre le informazioni sul virus sono ancora frammentarie: gli specialisti militari non conoscono il nemico che sta per colpirli. Ed ecco la decisione di andare lì dove ci si può impadronire dei segreti dell’avversario, intervenendo dove l’epidemia imperversa: la task force appena formata viene dirottata sull’Italia. “Tutto il personale qui guarda davvero il nemico invisibile direttamente negli occhi – ha detto il colonnello Igor Bogomolov, uno degli ufficiali chiave della missione – Stiamo acquisendo un’esperienza inestimabile, che in precedenza abbiamo ricevuto solo durante le esercitazioni. E a Bergamo la rafforziamo nella pratica”. Vladislav Shurygin, un comunicatore vicino agli ambienti ultraconservatori e agli ideologi del sovranismo cari alla Lega, è diretto: “L’invio di medici militari russi può essere considerato come una sorta di “ricognizione” affinché i nostri virologi ed epidemiologi studino la forma europea di coronavirus. Naturalmente in Italia, con un’esperienza così ampia di contrasto al contagio, sarà possibile sviluppare un modello per combattere il Covid in Russia. E se, Dio non voglia, l’epidemia crescerà nel nostro Paese, allora l’esperienza italiana sarà preziosa”.

 

Di questa operazione Kikot è lo stratega. Coordina le ricerche e le attività dei suoi uomini. Dalla Lombardia partecipa in teleconferenza alle riunioni indette a Mosca dal ministro Shoigu, ad esempio l’8 aprile, e dai vertici del governo. E fornisce indicazioni per allestire le difese contro il Covid. “Uno dei principali risultati del viaggio in Italia è la grande esperienza maturata nel lavoro pratico su attrezzature che non erano mai state utilizzate in modo così intensivo”, dichiara lo stesso Kikot nel maggio 2020 a Stella Rossa, la storica rivista delle forze armate russe, mentre è ancora in Lombardia: “L’uso dei nostri strumenti ci poneva immediatamente davanti all’obbiettivo di scoprire quanto fossero efficaci e di identificare come migliorarli. Abbiamo prontamente inviato le nostre proposte ai produttori e le stanno attuando”. Tutto in diretta da Bergamo a Mosca. Il vero cuore della missione era in cinque furgoni, inaccessibili agli italiani, parcheggiati nell’aeroporto di Orio al Serio: “Il complesso mobile MCA PBA, un laboratorio unico al mondo”, magnificato dallo stesso Kikot a Stella Rossa: “In Italia il complesso mobile è stato utilizzato esclusivamente per il monitoraggio e la rilevazione di possibili infezioni da coronavirus del personale militare russo. Il laboratorio consente di effettuare ricerche utilizzando le metodiche di dosaggio immunoenzimatico, analisi PCR e genotipizzazione”.

 

Il lavoro svolto dagli specialisti russi nel laboratorio da campo allestito presso la base aerea di Orio al Serio, in provincia di Bergamo. Il centro multifunzionale di diagnostica mobile viene utilizzato esclusivamente da personal russo. Fonte: Sputnik Italia

 

Non è una vanteria. Quella centrale di analisi semovente è veramente tra le più avanzate del pianeta. È stata realizzata sulla base delle esperienze russe in Africa nella lotta contro Ebola: si sono accorti che era troppo rischioso trasferire a lunga distanza campioni altamente infettivi e hanno progettato una struttura che potesse studiare il morbo nelle zone dove colpiva di più. Lì dentro ci sono tutti gli strumenti per decifrare ogni aspetto del virus e analizzarne la struttura genetica. Non a caso a Bergamo è stato mandato pure il tenente colonnello Vyacheslav Kulish, l’ufficiale che ha supervisionato la costruzione del laboratorio e quindi poteva gestirlo al meglio. Senza mai permettere alle autorità italiane di dare un’occhiata: quei furgoni sono sempre stati vietati a civili e militari del nostro Paese. Come ha spiegato il tenente colonnello Kulish alla stampa russa: “Gli specialisti del complesso mobile provvedono al monitoraggio 24 ore su 24, 7 giorni su 7… I risultati sono riportati al comando del distaccamento”. Il laboratorio dispone di un sistema satellitare di comunicazione criptata: tutti i risultati dei test genetici potevano venire trasmessi in tempo reale a Mosca. C’è però un’altra notizia fondamentale che arriva dal generale Kikot: “Gli ufficiali del 48° Istituto Centrale di Ricerca hanno operato nel laboratorio mobile”.

 

Dal veleno al vaccino

Al governo italiano non è mai stato comunicato quali fossero i reparti dei militari russi arrivati a Bergamo. E forse in quel momento i nomi delle unità avrebbero detto poco, perché sarebbero diventate celebri solo nei mesi successivi. Spesso però anche ai nostri media si è presentato il colonnello Igor Bogomolov, che ha concesso brevi interviste mentre sanificava ospizi e case di riposo. Bogomolov in realtà è il capo del Centro di ricerca sulla difesa biologica del ministero della Difesa e numero due dell’intero 48° Istituto Centrale di Ricerca. Un’altra figura con preparazione e rango straordinariamente superiori alle mansioni svolte in Lombardia. A dicembre 2020 Stella Rossa gli ha dedicato un’intera pagina apologetica. Viene ritratto con toni epici, narrando tre generazioni in servizio nelle brigate chimiche: nipote di un eroe dell’Unione Sovietica, pluridecorato per le imprese contro i nazisti; figlio di un ufficiale che si è immolato per contenere il disastro di Chernobyl, morendo poco dopo per gli effetti delle radiazioni. Ha addestrato i soldati per la guerra in Cecenia; preso parte alla campagna “per imporre la pace in Georgia”, ossia all’invasione del Paese caucasico, e ai soccorsi durante terremoti ed epidemie. La missione italiana gli ha fatto ottenere la quarta medaglia, “l’Ordine al Merito per la Patria”, e – sottolinea Stella Rossa – “la gratitudine del Presidente della Federazione Russa”.

 

Un ufficiale russo in equipaggiamento protettivo spruzza disinfettante in una residenza sanitaria in provincia di Brescia, 25 aprile 2020  

Cosa ha fatto per meritarsi la “gratitudine” di Putin? In apparenza il colonnello Igor è stato il condottiero delle truppe in azione nelle Rsa, mostrando i suoi uomini che pulivano le stanze e venivano – giustamente – applauditi dagli anziani e dai sindaci lombardi. Non si tratta però di un ufficiale abituato a perdere tempo spruzzando disinfettanti: le sue competenze sono di massimo livello. Come illustra Stella Rossa “dal 2012 è il direttore del Centro di ricerca, che è stato creato a Ekaterinburg e in cui si stanno sviluppando nuovi metodi e modi per eliminare le conseguenze delle emergenze biologiche”. Quando nel 2016 nella penisola siberiana di Yamal è scoppiata un’epidemia di antrace, Bogomolov ha gestito la crisi, incenerendo migliaia di animali infetti e stroncando il focolaio. Le ricerche condotte all’epoca sotto la sua supervisione sono diventate un punto di riferimento internazionale. E a Bergamo? I suoi assistenti hanno descritto ai giornali russi come operavano nelle residenze per anziani. Prima di iniziare la bonifica preparavano un rapporto epidemiologico: quanti casi, quanti morti, i tempi di diffusione. Lo hanno fatto più di cento volte, accumulando una mole colossale di dati sui bersagli favoriti del Covid, quelli over 70 che sono stati decimati soprattutto in Lombardia. Ma nessuno di questi dossier è stato consegnato alle autorità italiane: sono finiti tutti a Mosca, per orientare le misure di prevenzione disposte dal Cremlino.

 

Chi è il colonnello Igor Bogomolov

 

 

Se non sappiamo quali informazioni abbia esattamente raccolto a Bergamo, ora si conosce però un aspetto molto inquietante delle sperimentazioni condotte nel laboratorio di Ekaterinburg diretto da Bogomolov. Secondo il governo statunitense, lì infatti è stata messa a punto l’ultima versione del Novichock, il veleno usato dall’intelligence militare russa per cercare di assassinare gli oppositori del Cremlino, da Sergej Skipral ad Aleksej Navalny. Per questo motivo Washington, alcuni mesi dopo la fine della spedizione bergamasca, ha ordinato sanzioni contro il 48° Istituto Centrale di Ricerca accusandolo di avere contribuito a confezionare l’arma assassina: tra gli organismi citati nel provvedimento c’è proprio la struttura di Ekaterinenburg. Un reparto che quindi ha reso servizi preziosi e segretissimi per conto di Putin. Bogomolov viene ritenuto il numero due dell’intero 48° Istituto Centrale di Ricerca. Il suo capo è il colonnello Sergey V. Borisevich, membro dell’Accademia delle Scienze russe: un nome diventato poi famoso in tutto il mondo, perché è uno dei padri del vaccino Sputnik-V. Il primo antidoto in grado di fermare il virus, realizzato in tempi record dai ricercatori civili dell’Istituto statale Gamaleya di Mosca e, appunto, dagli scienziati militari del 48° Istituto Centrale di Ricerca.

 

La grande corsa

Sputnik-V è nato da un virus made in Italy. Uno dei problemi affrontati nella creazione del vaccino è stata la scarsità di pazienti infetti da esaminare. Vladimir Gushchin, il responsabile dello staff dell’Istituto Gamaleya incaricato di realizzare la sequenza genetica del Covid, ha dichiarato al Newyorker di avere cercato invano per giorni: solo il 17 marzo 2020 sono riusciti a estrarre un campione da una persona contagiata a Roma e rientrata due giorni prima a Mosca. La sequenza genetica era stata resa nota su Internet dalla Cina sin da gennaio, ma per gli studi sul vaccino servivano informazioni dirette. Una settimana dopo il primo campione, ben 32 tra virologi, medici e infermieri russi erano al lavoro nella terapia intensiva di Bergamo, dove le situazioni reali da esaminare non mancavano. Ogni ora si lottava per salvare persone con i polmoni devastati e il personale venuto dalla Russia – va riconosciuto – si è dedicato alle cure con la stessa dedizione dei medici lombardi.

 

Un militare russo esperto di protezione nucleare, biologica e chimica, esegue la disinfezione della casa di cura di Papa Giovanni Paolo I a Seriate (BG), 9 aprile 2020
 

Alcuni erano professionisti nella rianimazione. Altri invece non avevano preparazione specifica. Gennady Eremin, un tenente colonnello qualificato come “epidemiologo esperto di piani di prevenzione”. O i suoi colleghi Aminev, Bokarev, Kolesnikov, Shipitsyn, Usmanov: erano sì medici, ma soprattutto ufficiali specializzati nell’organizzare campagne militari per arginare la pandemia. Hanno indossato le tute protettive e tutti i giorni sono entrati in corsia, fornendo una collaborazione generosa nell’assistere i ricoverati. Le loro qualifiche però fanno pensare che le loro attenzioni fossero rivolte soprattutto a mettere a frutto in patria le conoscenze apprese sul campo. A dirigere questo gruppo era il tenente colonnello Alexander Yumanov, altra figura dal curriculum eccezionale. La propaganda lo ha presentato come “un professore associato dell’Accademia medica militare, con una vasta esperienza nella gestione di epidemie incluso un periodo in Guinea nell’ospedale che curava Ebola”. Anche in questo caso, è stato omesso il reparto di provenienza: sempre il 48° Istituto Centrale di Ricerca. Il tenente colonnello Yumanov – altre volte trascritto dal cirillico come Tumanov – risulta essere il direttore di un secondo laboratorio decisivo: quello di Kirov. È una delle strutture accusate dal governo americano di avere contributo a confezionare il Novichock e altri veleni proibiti. Ma soprattutto sin dai tempi dell’Unione Sovietica è il cuore delle attività per realizzare gli antidoti contro le armi biologiche. Ossia i vaccini.

 

 

 

In fondo, per sintetizzare un vaccino si seguono le stesse procedure impiegate per realizzare un’arma batteriologica. Le ha descritte l’ex colonnello Ken Alibek, per decenni ufficiale dei reparti sovietici più segreti fuggito negli Stati Uniti poco prima della caduta del Muro. Alibek oggi lavora in una società americana: contattato da Repubblica, ha risposto di non conoscere la situazione attuale e respinto la richiesta di intervista. Nel suo libro “Biohazard” presenta nel dettaglio gli esperimenti condotti sui virus fino al 1989. “Durante la Guerra Fredda consideravamo i virus le migliori munizioni del nostro arsenale. La loro capacità di infettare un grande numero di persone con un infinitesimo numero di particelle li rendeva l’arma ideale per la guerra strategica moderna… Una delle sfide fondamentali nel trasformare i virus in armi è trovare la giusta temperatura nella quale i patogeni possono crescere senza venire distrutti dal calore. Questo processo è molto simile alle tecniche per realizzare i vaccini”. Nel 1987, grazie a finanziamenti concessi da Gorbaciov, Alibek si occupò di costruire il primo grande reattore per la produzione di virus: il laboratorio dell’Istituto Vector di Kol’covo. Una storia remota? No: nello scorso settembre l’Istituto Vector ha iniziato la registrazione di EpiVacCorona, il secondo vaccino russo contro il Covid, approvato dal Cremlino a ottobre 2020.

 

 

 

Sputnik-V invece è stato partorito dalla stessa tradizione militare, sulla base però di un’esperienza più recente. Come abbiamo visto, il 48° Istituto Centrale di Ricerca è stato il protagonista delle spedizioni africane per combattere Ebola, che hanno portato a concepire e registrare un vaccino contro la febbre emorragica. Per quanto quel prodotto abbia avuto scarsa diffusione, è servito però come base per realizzare Sputnik-V. Nella terapia intensiva di Bergamo c’era anche il colonnello Aleksey Smirnov, il più quotato tra gli scienziati in divisa: “un epidemiologo esperto, autore di 70 pubblicazioni e figura fondamentale nello sviluppo di un vaccino contro Ebola”. Mentre il tenente colonnello Yumanov ha dato diverse interviste durante la permanenza in Lombardia e una volta in patria si è speso in alcuni convegni per discutere le misure contro il Covid, il suo superiore Smirnov è rimasto sempre nell’ombra. Difficile credere che si sia limitato a somministrare terapie ai malati intubati. Ma non c’è traccia della sua attività scientifica: tutto top secret.

 

La base dello Sputnik

“La scienza non conosce frontiere, ma gli scienziati hanno una patria”. La frase del presidente cinese Xi Jinping è doppiamente valida nella Russia di Putin, dove dopo la fuga di cervelli degli anni Novanta il Cremlino nel 2013 ha lanciato un programma di potenziamento delle ricerche biotech affidandolo completamente al controllo statale. I pilastri di questa crescita sono Rospotrebnadzor, l’Istituto Pasteur di San Pietroburgo, l’Istituto Gamaleya di Mosca e soprattutto i miliari del 48° Istituto Centrale di Ricerca. Come abbiamo visto, tutti sono stati coinvolti a vario titolo nella missione a Bergamo. Ma soprattutto il 48° Istituto Centrale di Ricerca è stato il propulsore della corsa per arrivare al primo vaccino. La rapidità con cui il Cremlino è giunto a disporre di Sputnik-V ha sorpreso il mondo. I laboratori statali russi hanno battuto sul tempo le più grandi e ricche aziende biotech dell’Occidente. E l’efficacia delle dosi – almeno nei confronti della prima variante del virus – è stata riconosciuta da riviste autorevoli come Lancet. “Attualmente stiamo lavorando non su due prototipi del vaccino, ma su molti altri – ha commentato uno dei ricercatori militari di Mosca -: Qualcuno preferisce lavorare in silenzio, senza dichiarazioni. Vediamo cosa succede al traguardo. È come ai Giochi Olimpici: non sempre vince chi ha l’abito più brillante”.  Infatti il 22 maggio, una settimana dopo il rientro del contingente lombardo, viene annunciato che la Russia ha preparato il vaccino. Ai primi di giugno c’è già un cronoprogramma: ad agosto ci sarà la certificazione e a settembre la produzione su larga scala. I test cominciano il 18 giugno: la prima fase avviene su volontari appartenenti alle forze armate. E chi se ne occupa? Il 48° Istituto Centrale di Ricerca.

 

Un militare disinfetta i bagagli del personale militare la rientro in Russia, 15 maggio 2020 

Fonti di intelligence, a cui non è stato possibile dare riscontro documentale, sostengono che proprio il laboratorio del colonnello Yumanov, il capo dei medici impegnati nella terapia intensiva di Bergamo, ne ha avuto la supervisione. E il colonnello Smirnov ha dato un sostegno rilevante nel trasformare il brevetto contro Ebola nella formula per immunizzare dal Covid. Impossibile valutare quanto l’attività svolta sul campo in Lombardia abbia contribuito alla messa a punto di Sputnik-V. Se gli esami condotti nel laboratorio mobile vietato agli italiani siano serviti nello sprint verso il primato. Le nostre autorità sanitarie e militari hanno specificato a Repubblica che ai russi non era permesso portare campioni o provette fuori dall’ospedale, ma allo stesso tempo ammettono che in quei giorni concitati non c’era la possibilità di controlli meticolosi. E il contingente era in grado di trasmettere via satellite in maniera criptata.

 

Antonino Di Caro è un dirigente dello Spallanzani di Roma che ha partecipato a ricerche europee sui laboratori mobili per contrastare le epidemie. Dopo avere esaminato la documentazione sugli strumenti russi trasferiti a Bergamo, dichiara a Repubblica: “In quel momento esistevano già informazioni genetiche dettagliate sul Covid quindi l’attività di quel laboratorio non può avere dato un contributo sullo sviluppo di un vaccino. La missione a Bergamo poteva invece ottenere dati in termini epidemiologici come l’andamento clinico della malattia o la diffusione sul territorio. Si tratta di dati utili per poter gestire l’impatto di una pandemia”.

 

Il percorso tracciato da Flightradar24 di un Ilyushin Il-76 delle forze aeree russe in viaggio da Mosca a Roma con a bordo il personale medico, 23 Marzo 2020

Una cosa è certa. La Russia ha potuto vincere la corsa per il vaccino grazie alle conoscenze dei militari su Ebola. Lo ha specificato Alexander Ginzburg, il direttore del Gamaleya che ha brevettato Sputnik-V: “Attraverso l’uso della piattaforma tecnologica sviluppata per il vaccino contro Ebola, il Gamaleya ha gestito in un tempo breve la realizzazione di tutto lo spettro delle ricerche e dei test pre-clinici in tandem con il ministero della Difesa ed esattamente con il 48° Istituto di Ricerca Centrale”. Il professor Ginzburg ha ringraziato i militari per “il lavoro di grande qualità e utilità”: “L’alto livello di cooperazione ci ha permesso di raggiungere il risultato in un tempo veramente ridotto”. Il comandante del 48° Istituto Centrale di Ricerca, il colonnello Sergey V. Borisevich, è più prodigo di notizie sulla collaborazione fornita per Sputnik-V. A Stella Rossa conferma che “gli specialisti dell’Istituto hanno iniziato la ricerca nell’aprile 2020”. Ossia mentre i direttori dei due laboratori chiave della struttura erano impegnati a Bergamo. “Entro poco più di due mesi presso l’Istituto è stata effettuata una valutazione della sicurezza e dell’efficacia protettiva del vaccino contro il coronavirus. Un gran numero di scimmie e criceti siriani è stato utilizzato negli studi preclinici”.

 

 

“In effetti – spiega Borisevich a giugno 2020 – i vaccini sono generalmente sviluppati lungo un periodo di tre o quattro anni. E senza studiare le proprietà biologiche del patogeno Covid, senza caratterizzare il ceppo vaccinale, sarebbe impossibile anche solo iniziare a progettare un vaccino. Ma nel 48° Istituto Centrale di Ricerca è già stata elaborata la metodologia per la valutazione quantitativa del patogeno ed è stato sviluppato un modello di laboratorio che consente di riprodurre il decorso della malattia respiratoria acuta grave per valutare l’efficacia protettiva dei farmaci. I brevetti per queste invenzioni appartengono al 48° Istituto Centrale di Ricerca”.

 

Alcuni dei 100 esperi milirari russi durante le operazioni di scarico dei materiali tecnici portati in Lombardia per l’allestimento del laboratorio mobile MCA PBA, 27 marzo 2020 

 

Oltre la propaganda

Prima che Sputnik-V diventasse l’argomento chiave per l’avanzata diplomatica russa, offrendolo ovunque come strumento di amicizia e di influenza, donandolo pure a Paesi dell’Unione europea e della Nato, il capolavoro della propaganda del Cremlino è stata proprio l’operazione “Dalla Russia con amore”. Sin dall’esordio, le imprese della spedizione italiana sono state rilanciate in tutto il mondo con comunicati quotidiani in lingue diverse. Il messaggio è stato duplice: da una parte esaltare l’efficienza russa, dall’altro mettere in evidenza come l’Ue e la Nato avessero chiuso gli occhi sulla tragedia della Lombardia devastata dal virus. Il primo punto doveva rassicurare l’opinione pubblica russa in vista del referendum costituzionale: a marzo i sondaggi per la prima volta mostravano un calo nella popolarità di Putin. E mentre le notizie sull’epidemia in Russia erano scarse e l’annuncio delle “ferie collettive” a partire dal 28 marzo aveva creato un forte scetticismo, le scene dell’accoglienza trionfale genuinamente tributata al contingente a Bergamo e della competenza nel soccorso hanno cercato di dirottare l’attenzione in patria sui guasti dell’Occidente.

Ancora più massiccio il dispiegamento mediatico rivolto all’estero, per screditare soprattutto l’Ue. Un’operazione in linea con quanto teorizzato dal saggio di Pshenichnaya e Khopiorskaya: sfruttare la pandemia per scardinare l’ordine mondiale. “Il Cremlino usa costantemente tattiche della guerra dell’informazione, che sono parte della guerra ibrida, senza riguardo per la situazione di amicizia o ostilità nei confronti di un Paese. Da questo punto di vista, si può ritenere che l’atteggiamento russo in Italia è stato un capitolo della guerra ibrida”. Jakub Kalensky è un esperto dell’Atlantic Council che ha analizzato lo sviluppo della disinformazione sul tema del Covid sin dal marzo 2020. “Per capire se si tratti o meno di un nuovo metodo di competere con la Nato, dobbiamo aspettare e vedere. Ma il Cremlino ovviamente ha cercato di sfruttare la pandemia per i suoi scopi politici e militari. E adesso attende la reazione. Se non ci sarà una reazione che li possa scoraggiare, possiamo essere sicuri che i russi lo faranno di nuovo. Perché sono conflittuali e usano ogni occasione per portare avanti i loro interessi”.

 

 

C’è un altro elemento che comincia a venire discusso dagli analisti internazionali: il peso che hanno avuto i militari nella gestione della pandemia e nella preparazione del vaccino. Rod Thornton e Marina Miron del King’s College di Londra sono stati i primi a scriverne: “Come il lavoro del 48° Istituto di Ricerca Centrale mostra, i generali russi sono sicuramente capaci di realizzare un vaccino contro una minaccia biologica come il Covid. Il vaccino sembra essere stato pronto addirittura prima che i test venissero completati. Se questo ci parla di militari che sono in grado di preparare difese epidemiologiche molto rapidamente, non ci dice anche che devono essere capaci di sviluppare e schierare armi batteriologiche molto velocemente?”. Nel testo scritto per il Dipartimento di studi sulla difesa del King’s College passano in rassegna anche la spedizione lombarda, centrale in questa nuova strategia che fonde ogni tattica tradizionale e innovativa. L’ipotesi è che quello sperimentato contro il Covid sia un nuovo modello della competizione internazionale, affidato da Mosca ai militari in patria e nel mondo. “Anche i Paesi democratici spesso mandano medici militari come soccorso in caso di calamità, perché possono essere schierati più rapidamente – conclude Jakub Kalensky -. Ma i paesi democratici e la Russia non si comportano nello stesso modo, perciò non credo che ci siano dubbi. È un’altra ragione per essere molto allarmati”.

Bergamo come campo di prova dei nuovi conflitti asimmetrici. Dove anche l’aiuto umanitario diventa il fulcro di una sfida senza limiti, condotta con ogni mezzo sotto la direzione dei generali. Resta una domanda, la grande questione irrisolta di questa vicenda: il governo italiano nella primavera 2020 si è reso conto di tutto questo? Il periodo era certamente drammatico, ma la genesi di “Dalla Russia con amore” resta ancora avvolta nell’oscurità. A partire da un interrogativo chiave: è stato Vladimir Putin a offrire i soccorsi o Giuseppe Conte a domandarli? Mosca ha sempre sostenuto che c’è stata una richiesta di Roma. Fonti di intelligence invece ritengono che sia stato il Cremlino a mettere sul tavolo l’invio della task force. Palazzo Chigi invece ha parlato di “un’iniziativa concordata” e l’allora premier ha respinto con sdegno in un’intervista alla Bbc l’ipotesi che la spedizione russa avesse secondi fini: “La semplice insinuazione mi offende profondamente”. Le stesse dichiarazioni dei responsabili dell’operazione russa adesso raccontano un’altra storia. Ed è arrivato il momento che il Copasir affronti il tema e faccia piena luce su cosa è realmente accaduto.

 

(afp)

tutti i video, fotografie e grafici cliccando il link sotto riportato

https://www.repubblica.it/esteri/2021/06/17/news/bergamo_virus_spie_e_vaccini-306329555/?ref=RHTP-BH-I304495303-P2-S1-F&__vfz=medium%3Dsharebar

Sorgente: Bergamo: virus, spie e vaccini – la Repubblica

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