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di Sergio Rizzo

ROMA – I soldi per le infrastrutture, per assurdo che possa sembrare, ce ne sono fin troppi. E non parliamo dei denari europei del Recovery plan, ma di quelli già stanziati negli anni dalle leggi di bilancio, oppure a valere sui fondi comunitari, e mai utilizzati. L’ex ministro dell’Economia della maggioranza gialloverde, Giovanni Tria, rivelò un giorno al presidente dell’associazione dei costruttori edili Gabriele Buia che aveva trovato 89 miliardi giacenti negli armadi. Soldi in gran parte destinati alle infrastrutture lasciati inspiegabilmente a macerare, per inefficienze, follie e incapacità tanto della politica quanto della burocrazia. Da chissà quanto tempo.

Mario Draghi conosce bene qual è il collo di bottiglia. Tanto da aver affidato alle sue ultima Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, qualche mese prima di traslocare a Francoforte, una diagnosi spietata: “Incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costose che altrove.

I progetti finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale vengono eseguiti in tempi quasi doppi rispetto a quelli programmati, contro ritardi medi di un quarto in Europa, e i costi eccedono i preventivi del 40 per cento, contro il 20 nel resto d’Europa (…) I fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono stati spesi solo per il 15 per cento…”. C’è tutto in queste parole, che sembrano scritte oggi. Anche perché da allora, 31 maggio 2011, se qualcosa è cambiato, è cambiato in peggio.

Dieci anni dopo abbiamo a che fare con gli stessi problemi. Al febbraio 2021 abbiamo speso, lamentano i costruttori, appena il 40 per cento dei fondi strutturali europei del periodo 2014-2020, e non più del 6 (sei) per cento del fondo per lo sviluppo e la coesione. Un anno fa le opere bloccate censite dall’Ance erano la bellezza di 749, per un valore di 62 miliardi. Fra queste, per citarne una simbolica, la sistemazione del fiume Sarno che nel 1998 provocò una frana con 160 morti. Nei cassetti del ministero dell’Ambiente, in un Paese cui il micidiale dissesto idrogeologico ha inflitto in vent’anni la metà di tutti le ferite ambientali subite dall’Europa, risulterebbero fermi da anni altri 7 miliardi.

La situazione oggi è tale che per realizzare un’opera pubblica modestissima, per capirci di importo fino al milione di euro, si possono impiegare anche 5 anni. E almeno 15, invece, ne servono se l’opera è da oltre 100 milioni. Il risultato? Dicono sempre i costruttori che con questo stato di cose non si riuscirà a fare entro il 2026 più del 50 per cento delle infrastrutture previste dalla bozza di piano ipotizzata a suo tempo dal governo Conte.

Si dà la colpa all’attuale codice degli appalti, che di responsabilità ne ha parecchie. Come del resto il codice che l’ha preceduto, in dieci anni modificato 597 volte. A dimostrazione del fatto che non c’è settore dell’economia sottoposto a regole più astruse e complicate. E le moltiplicazioni dei passaggi fanno crescere anche i rischi di corruzione. Come stanno a dimostrare le inchieste della magistratura. Una ricognizione del governo Monti ha accertato nel 2012 che la corruzione può far lievitare anche del 40 per cento il costo delle opere pubbliche.

Nel 2006, da poco arrivato alla Banca d’Italia, Draghi non mancò neppure di sottolineare il “nodo irrisolto” del rapporto fra stato e regioni sulle infrastrutture strategiche: frutto dell’insensata riforma del titolo V della Costituzione voluta da un miope centrosinistra al solo scopo di inseguire la Lega, e capace di rendere tutto ancor più difficile.

Un Paese serio avrebbe provveduto intervenendo alla radice, prontamente. Si è invece cercato di curare stancamente il cancro con le aspirine. A cominciare dai commissariamenti, una strada battuta già dal primo governo Prodi nel 1997. I commissari non potevano risolvere il problema, né l’hanno risolto in seguito. Da quando, nella primavera del 2016, è stato partorito il nuovo codice degli appalti, che secondo quanto era stato promesso avrebbe dovuto mettere il turbo ai cantieri pubblici, ne sono stati nominati altri 25: senza apprezzabili risultati.

È successo così che il decreto Sbloccantieri abbia previsto nel 2019 di affidare il compito di far ripartire grandi opere pubbliche arenate ma considerate urgenti, per esempio la linea C della metropolitana di Roma, o rendere più spedite le procedure, ad altrettanti commissari. Mentre per sbloccare i lavori delle infrastrutture più piccole non si è trovato di meglio che abolire temporaneamente le gare. Con tutti i rischi del caso soprattutto nelle aree dove la criminalità organizzata spadroneggia, ha avvertito inascoltato l’ex presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone prima di lasciare l’incarico. E senza nemmeno considerare che il 70 per cento dei ritardi si verifica prima della gara. Roba da ammazzare la concorrenza e far venire i brividi a Bruxelles.

In questo scenario l’unica cosa che non si è fermata sono le chiacchiere. Ce n’è per tutti i gusti. Anche per gli amanti della soap opera “Ponte sullo stretto di Messina” che annovera fra i suoi principali fan Matteo Salvini (oltre a Matteo Renzi), ostinato a riproporla a ogni occasione. Anche all’incontro con Mario Draghi. Al quale ora tocca porre rimedio ai guai che i troppi chiacchieroni dei governi precedenti sono stati capaci di fare. E questa è l’unica certezza.

Sorgente: Infrastrutture in trappola tra tempi lunghi delle opere e fondi europei mai utilizzati | Rep

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