L’ultradestra dell’etere. Un intrigo di società dietro a Radio Maria

DI GIULIANO FOSCHINI FABIO TONACCI
Appunti sparsi: “Il Coronavirus è un complotto sotto l’impulso di Satana”. “Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale”. “La donna? Cucina, stira, lava i panni e fa la spesa”. “Il premier Conte parla di nuovo umanesimo spesso. Che significa? Adozioni gay, eutanasia, droga libera”.
A parlare dal più grande microfono d’Italia – era una radio, adesso è una media company con le dirette Youtube, il digitale terrestre, le pagine Facebook – acceso 24 ore su 24 e in grado di raggiungere ogni angolo d’Italia e di mezza Europa, è padre Livio Fanzaga. Giornalista (già sospeso), prete dalle parole rigide che in questi anni ha trasformato Radio Maria nella palestra della destra reazionaria italiana. I nemici sono i comunisti e i migranti, gli islamici e gli omosessuali. “Quelli che vogliono spalancare la porta al diavolo”. Ma anche i preti poco ortodossi, e persino Papa Francesco. Gli amici sono invece i cattolici integralisti, le associazioni anti aborto, i genitori che “curano” i figli omosessuali, “Matteo Salvini che segue un cammino di fede non per interesse politico” diceva a febbraio padre Livio, subito rilanciato dalle pagine social del Capitano con migliaia di like. Ecco: rosari in radio, meme sui social, crociate. Ma cosa muove davvero Radio Maria?
Repubblica ha avuto accesso ai bilanci, agli intrecci societari che la dominano, all’elenco degli impianti che ne irradiano il segnale. Radio Maria è soprattutto un florido business, che incassa come una grande azienda (20 milioni di euro all’anno), ha un patrimonio di 73 proprietà in tutta Italia e paga le tasse come un dipendente pubblico: 1.300 euro ogni mese.
Le 874 frequenze
Radio Maria viene fondata nel 1986 ad Arcellasco d’Erba da padre Mario Galbiati, ma è con l’ingresso cinque anni dopo di Emanuele Ferrario, imprenditore caseario – è suo il Burrificio Campo dei Fiori – che l’emittente diventa internazionale. Negli anni del far west dell’etere, e fino al 1990, Radio Maria fa quello che fanno tutti: rastrella frequenze. Poi però Ferrario inaugura un’aggressiva politica commerciale: compra antenne con l’obiettivo di arrivare ovunque, soprattutto nelle campagne e nei piccoli paesi. È lì che conta di intercettare il gradimento degli anziani cattolici.
E ci riesce. Oggi l’emittente ha 874 impianti sparsi per l’Italia. Fino all’arrivo di Radiofreccia, che ha acquisito Radio Padania e le sue frequenze occupate senza licenza, era seconda soltanto alla Rai. Radio Maria è una radio comunitaria nazionale, perché è gestita da un’associazione (in teoria) senza scopi di lucro, trasmette programmi autoprodotti per gran parte del tempo con limiti sulla pubblicità. In quanto radio comunitaria, fino al 2016 ha goduto di contributi statali che oscillavano tra i 500mila e gli 800mila euro annui. Ma non è il finanziamento pubblico il segreto del successo.
Il tesoro delle donazioni
“Ogni giorno – racconta a Repubblica un ex dipendente della radio – arrivavano sacchi di lettere: all’interno preghiere, santini. E anche denaro. Erano tutte donazioni”. Radio Maria si finanzia principalmente con i soldi dei suoi ascoltatori. C’è un conto corrente postale, ma si può pagare anche con la carta di credito e tramite bonifico. “All’inizio del lockdown – spiega una fonte interna – don Livio era preoccupato che i nostri ascoltatori, per lo più anziani, malati e persone sole, non potessero andare più alla posta. Così ha messo su un call center”. Non per sostenere gli anziani durante la pandemia. Ma per questo: “A causa del Coronavirus molti ascoltatori non possono andare in posta per il bollettino a favore di Radio Maria. Si potrebbe superare la difficoltà con un “Sepa straordinario” mantenendo la donazione abituale”.
Il bilancio
D’altronde il giro di denaro è robusto. Secondo l’ultimo bilancio depositato, Radio Maria ha un patrimonio immobiliare, frutto delle donazioni degli ascoltatori, da una decina di milioni di euro: 26 terreni e 47 fabbricati, da Trani alla Sardegna, dalla Lombardia alla Sicilia. Nel 2019 ha incassato 22 milioni e 575mila euro. Di questi, 20 sono arrivati dalle donazioni, 1,9 dall’8 per mille. Più complesse le uscite. Poco meno di dieci milioni vanno via con la gestione e la manutenzione delle infrastrutture. Tre sono di “gestione ordinaria” tra stipendi (1 milione e 250) consulenze amministrative e legali (807mila), informatiche (489mila) e spese legali (317mila). Il capitolo più interessante sono però i 5,6 milioni indicati come “Progetti di cooperazione e comunicazione”.
Al netto di 7mila euro spesi in beneficenza, Radio Maria fa sapere di aver distribuito cinquemila radioline e settemila libretti di preghiera, di aver speso 2,8 milioni per “progetti di terzi” senza specificare quali, di avere versato 2,2 milioni per la quota associativa della World Familiy e 600mila per la Fondazione Formare. I soldi però non sono mai andati via. World Family e Formare altro non sono che costole, costosissime, delle radio più grande d’Italia. La radio di don Livio.
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