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L’opera di rimozione e falsificazione della Resistenza si arricchisce ogni anno di nuovo protagonisti. Autorevoli esponenti delle “istituzioni democratiche”, storici e politici, reazionari e “progressisti” fanno a gara per svuotare la Resistenza del suo significato, infangandola, anestetizzandola, sovrapponendogli una qualunquistica memoria bipartisan secondo cui le ragioni e i torti riguardano partigiani e saloini, che si distribuiscono equamente “buona fede” e violenze, elogi e  uccisioni. I revisionismi convergenti innalzano al bandiera della pietas verso i morti, denunciano “l’odio” che caratterizzava i conflitti del passato, condannano moralisticamente le “violente” comuniste nella guerra di liberazione, diventano le moderne vestali del culto della “Patria” e del più gretto anticomunismo.

I vinti infami e la giustizia partigiana

Vespa e Pansa sono stati gli ultimi epigoni di una vasta pletora di falsi storici, che hanno i loro antesignani nei vari Montanelli, Cervi, Gervaso che, a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, hanno costruito la favoletta del fascismo “regime dal volto umano”.

La banalizzazione retrospettiva del ventennio fascista, posta a fondamento delle loro scritture pseudostoriografiche, ha contribuito a divulgare l’immagine di un fascismo forse maldestro ma certamente non criminale, iscrivibile a pieno titolo nel mito degli “italiani brava gente”, che rappresenterebbe l’elemento caratterizzante della nostra storia, dall’unità d’Italia al giorno d’oggi.

È una “storia” inconsistente, fondata su pregiudizi antipartigiani e anticomunisti, figlia di un giornalismo che scrive per sentito dire, senza fornire documentazioni, concentrato sull’obbiettivo di fornire un’immagine angelicata di “vinti” presentati come “vittime”, al di fuori dell’ideologia criminale alla quale aderirono e della feroce condotta che caratterizzò le loro azioni.

Andiamo al nocciolo della questione: chi erano, infatti, i “vinti”? Non erano certo animelle innocenti che combattevano per una “causa sbagliata”. Erano aguzzini e criminali che avevano inflitto tremende sofferenze, torture, carcere, morte agli oppositori politici, che avevano condannato il popolo italiano a subire le terribili conseguenze della guerra, che avevano collaborato attivamente con i criminali nazisti, promuovendo un imperialismo straccione, ma sanguinario, in Africa e seminando devastazione e oppressione in larga parte dell’Europa con la complicità dei militari regi, protagonisti di barbare imprese, dalla Spagna all’Unione Sovietica.

Proprio nel momento in cui appariva certa la disfatta del nazifascismo, i “vinti” esaltarono la loro indole criminale e omicida: occorre ricordare che tra il 25 aprile e il 1° maggio 1945 caddero in combattimento 4000 partigiani, il 10% circa dell’intera guerra antifascista; di essi 320 vennero uccisi dai fascisti in una Torino ormai liberata.

L’argomento della giustizia partigiana va affrontato senza le timidezze anchilosate che per anni hanno caratterizzato la “sinistra” italiana. A dispetto delle parole di condanna pronunciate da Mattarella in occasione dello scorso 25 aprile,  essa rappresentò l’unica forma di giustizia, pur limitata nei tempi e nelle forme dai vertici del PCI e del PSI, realizzata contro i criminali in camicia nera.

Dal canto suo la giustizia della “Repubblica nata dalla Resistenza” tra il 1948 e il 1954 condannò 884 partigiani a 5806 anni di carcere; inoltre, con l’amnistia Togliatti, assicurò l’impunità dei fascisti, mentre magistrati e poliziotti fascisti ripresero rapidamente il loro posto, come strumenti al servizio della reazione, nelle rinnovate forme politiche post-belliche.

Patria e anticomunismo

Nell’ultimo periodo il revisionismo è divenuto ancora più aggressivo operando una saldatura con la peggiore retorica nazional-patriottarda, nel tentativo di costruire una memoria collettiva omologata all’insegna dell’anticomunismo.

Dalle colonne del “Corriere della sera” si susseguono, proprio in questi giorni,  pagine intere firmate da Aldo Cazzullo  per il quale esisterebbe un’unica Storia che va dai combattenti del Carso a quelli che diedero “prova di valore sfortunato sulle Alpi e in Albania, nel deserto africano e nell’inverno russo”, ai “carabinieri, militari, sacerdoti, suore”  che dissero no al fascismo. “Tra i partigiani – leggiamo – c’erano uomini fedeli al re e altri che sognavano al repubblica, cattolici che guardavano al Vaticano e comunisti che avrebbero voluto fare come in Russia (e che per fortuna furono fermati, dopo aver seminato lutti che non hanno giovato alla causa della Resistenza)”.

Il tentativo di Cazzullo di costruire un’unica storia patria, all’insegna del tricolore, è becero, storicamente falso, offensivo nelle confronti delle vittime della violenza nazional-patriottarda.

Il pensiero va innanzitutto alle migliaia di disertori e di ammutinati barbaramente assassinati in nome del tricolore, ai protagonisti dell’insurrezione di Torino, ai socialisti e ai proletari incarcerati e assassinati nelle piazze del Regno perché si opponevano alla scelleratezza della guerra.  Ed ai tantissimi soldati mandati a morire in una carneficina voluta per servire gli interessi della borghesia criminale italiana durante la prima guerra imperialista. Ed ai partigiani sovietici, albanesi, greci, jugoslavi, ai combattenti per la libertà in Libia ed Etiopia, assassinati da truppe che sventolavano il tricolore.

Quei militari facevano parte di truppe di occupazione, non erano si trovavano in quei paesi in vacanza. Erano lì per contribuire ad instaurare una pax nazifascista sul pianeta, artefici, più o meno consapevoli, poco importa, di una guerra d’aggressione. Rendere omaggio ai militari morti per causa del duce ha la stessa valenza morale di un omaggio reso alla soldataglia hitleriana morta a Stalingrado.

Nessuna moralistica pietà vi può essere per chi soccombe servendo la causa dell’oppressione. Questo vale anche per gli occupanti italiani, militari e non, che, a vario titolo, sono stati protagonisti e/o beneficiari dell’epurazione etnica e dell’italianizzazione forzata a cui sono state sottoposte, per lunghi anni, le popolazioni  slovene e croate.

Il “presidente di tutti gli italiani” come Mattarella ama definirsi,  sempre pronto a ricordare “la persecuzione, gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe, l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia” dimentica regolarmente le vittime nei campi di concentramento italiani, a partire da quello di Arbe, dove morirono a migliaia, proprio per mano delle truppe d’occupazione italo-fasciste.

I Comunisti e la Resistenza

Il revisionismo storico tenta unanimemente di minimizzare il contributo determinante fornito dai comunisti alla Resistenza.

Le formazioni partigiane sono state in grande prevalenza di iniziativa e composizione comuniste e ciò ha arricchito il movimento di liberazione, dotandolo di una spina dorsale classista  e rivoluzionaria che ha svolto un ruolo determinante nel corso della lotta.

I partigiani comunisti hanno fatto la Resistenza, assumendosene tutto il carico che ne conseguiva in termini di militanti morti, orribilmente torturati, rimasti mutilati non malgrado fossero comunisti ma proprio perché comunisti.

Erano comunisti quei partigiani che rischiavano al vita con il fazzoletto rosso al collo, che morivano fucilati gridando “Viva il comunismo” o “Viva Stalin”, che, nelle difficili condizioni che la lotta partigiana imponeva, facevano l’ora politica, discutevano con grande passione della società che avrebbero voluto costruire, della “rossa primavera” che volevano conquistare.

Nei primi decenni del dopoguerra esisteva il problema della riduzione del 25 aprile a mero atto celebrativo; negli ultimi vent’anni assistiamo alla progressiva criminalizzazione e allo svuotamento della Resistenza stessa, del suo significato, delle aspirazioni dei protagonisti del più ampio movimento di partecipazione popolare che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia.

Non esiste una Resistenza “buona” e una “cattiva”, né ci si può adagiare sui moralistici distinguo che gli odierni benpensanti agitano strumentalizzando il passato per imporre la società capitalistica come l’unico (ed imprescindibile) mondo in cui si possa vivere.

Ai revisionisti di ieri e, ancor di più, all’aggressività anticomunista di quelli di oggi non si può rispondere riproponendo la Resistenza esclusivamente come la “lotta contro l’invasore e i suoi complici di Salò”; essa era molto altro, era, soprattutto, spinta verso un mutamento reale del sistema di dominio capitalistico e del potere agrario che il fascismo aveva garantito.

La trappola del patriottismo democratico-borghese

“Il 25 Aprile è un ‘doveroso ricordo’ che ci spinge a stringerci intorno ai nostri amati simboli: il tricolore e l’inno nazionale”, ha ammonito lo scorso anno Mattarella.

E puntualmente anche quest’anno, sfruttando la tensione psicologica determinata dall’emergenza sanitaria, spuntano i tricolori distribuiti gratuitamente, da diversi giornali, guarda caso il 24 aprile, e l’inno nazionale riproposto come superstiziosa ancora di salvezza per fermare il virus.

In realtà bandiere e inni nazionali non servono a fermare né il virus nè il fascismo; così come non servono i riti propri della democrazia borghese.

La democrazia non è stata mai il baluardo della lotta antifascista. Semmai è proprio sul suo terreno che le forze fasciste si sono sviluppate e sono cresciute. Mussolini prese il potere con la connivenza e la complicità delle istituzioni dello Stato sabaudo, mentre  Hitler non si prese nemmeno la briga di cambiare o abolire la costituzione democratica di Weimar, si limitò ad applicarne l’articolo 48 che dava al Presidente poteri eccezionali. La borghesia italiana rimase fascista fin quando fu chiara la sconfitta del fascismo. A quel punto divenne “antifascista” affrettandosi a mettere il cappello su una guerra che altri avevano subito. La Costituzione repubblicana fu l’atto che legittimò il potere democratico dei padroni italiani.

La classe operaia  – è bene ricordarlo – era stata sconfitta anche nei paesi dove la democrazia aveva mantenuto i suoi caratteri originari e manipoli di criminali in camicia nera non si sarebbero nemmeno sognati di bivaccare nelle aule parlamentari. Sul piano economico il capitale praticava le stesse soluzioni e percorreva le stesse strade (keynesismo, massiccio intervento statale nell’economia, riarmo e concorrenza aggressiva verso il capitale concorrente) a prescindere dei regimi politici attraverso i quali governava. Per il capitale è indifferente quale comitato d’affari diriga lo Stato, l’unica cosa che gli interessa è che sia efficiente e funzionale alla legge della sua continua valorizzazione.

L’enfasi data in Italia alla lotta “patriottica” di liberazione contro il nazifascismo è stata per decenni la maschera dietro la quale si nascondeva la vecchia pratica gattopardiana del cambiare tutto (nella sovrastruttura politica) per non cambiare nulla (nella struttura economica).

È certo, anche, che per il proletariato non è indifferente sotto quali condizioni avviene il suo sfruttamento. Ed è proprio questa l’origine, pratica e ideologica, di ogni illusione riformista. È questo il “punto debole” che ha reso vulnerabile, sul terreno politico, la classe più rivoluzionaria che si è manifestata nella società divisa in classi.

Dire che la democrazia è preferibile al fascismo non è lo stesso che dire “bisogna difendere la democrazia per impedire il fascismo”. Nel primo caso si prende atto di un dato di fatto e si cerca di approfittare dei vantaggi che comporta una situazione di relativa “tolleranza”. Nel secondo si rinuncia al proprio obiettivo storico – il socialismo  – rinunciando alla propria autonomia e alla lotta di classe, in cambio di una situazione di “stallo”  accettata per evitare il “peggio”.

Oggi i caratteri peculiari di una politica “fascista” fanno parte delle opzioni praticate dalla democrazia parlamentare. Nazionalismo, sovranismo,  razzismo, non appartengono esclusivamente alle piccole minoranze di estrema destra. Sono “idee” costituzionalmente garantite la cui propaganda è legalmente riconosciuta.

La democrazia, e i partiti democratici con essa, tende a mutare assumendo il carattere di una democrazia sempre più forte e sempre più autoritaria, perfino le libere elezioni  – un tempo elemento di distinzione e fiore all’occhiello delle società “libere” –  si trasformano in truffe in cui chi vince è deciso dalla legge elettorale in vigore, esattamente come succedeva nel ventennio fascista.

Antifascismo e lotta di classe

Ecco perché oggi i neofascisti non assumono il carattere di un nemico politico autonomo, di un corpo estraneo da isolare e sconfiggere per ristabilire il libero confronto. Sono solo bande di delinquenti a cui viene delegato il compito di provocare e reprimere le avanguardie, bassa manovalanza al servizio dello Stato. Sono un problema che va certamente affrontato sul terreno della difesa militante della propria agibilità nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri. Ma non sono il nemico principale e soprattutto non sono il nemico di una democrazia che li produce, li usa, e apparentemente li combatte.

Dopotutto la legge Reale  – con relativa democratica licenza di uccidere i manifestanti –  non è stata varata dal Gran Consiglio del Fascismo ma dal parlamento democraticamente eletto; la sostanziale abolizione del diritto di sciopero, la distruzione dei diritti dei lavoratori, il saccheggio delle pensioni, i campi di concentramento per i migranti non sono certo il frutto di qualche giunta militare golpista.

Li hanno prodotti gli stessi che ogni anno portano corone di fiori nei monumenti dedicati ai partigiani, indossando scintillanti fasce tricolori, magari cantando “Bella ciao”, offendendo ancora una volta la memoria dei partigiani.

L’ulteriore sviluppo della lotta di classe ci farà scoprire, prima di quando immaginiamo, un fascismo sempre più compatibile, se non collaterale, con una democrazia sempre più fascista e autoritaria.

Oggi, come durante la Resistenza, dobbiamo combattere l’attendismo e la politica di ripiegamento su obiettivi estranei alla classe sfruttata. Davanti a noi non c’è alcun periodo favorevole di pace e di sviluppo. Solo riprendendo la lotta contro la barbarie capitalista sarà possibile fermare la crescente ondata antipopolare, reazionaria e nazionalista, mettere in crisi i privilegi della classe dominante, dare voce a quelle istanze di liberazione sociale che animarono la Resistenza e che sono state soffocare.

Un compito arduo e difficile, ma irrinunciabile per noi comunisti.

di Graziella Molonia (Red Militant, che aderisce al Fronte Militante per la ricostruzione comunista)

Sorgente: A conquistare la rossa primavera – L’Ordine Nuovo

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