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Nella cittadina di Martuni, nella casa distrutta di un pensionato: “Ero in cortile a raccogliere gli ultimi pomodori, ma mia moglie si trovava in cucina e una scheggia di un razzo le è entrata nel cuore”

dal nostro inviato PIETRO DEL RE

MARTUNI (NAGORNO-KARABAKH) –  Il razzo ha sfondato il tetto della loro vecchia casa in pietra e legno, centrando la camera da letto. “Io ero in cortile a raccogliere gli ultimi pomodori, ma mia moglie Bela si trovava in cucina e una scheggia le è entrata nel cuore”, racconta con gli occhi lucidi di pianto Grigorian Mavrik, esile pensionato di 72 anni, vittima assieme alla donna che aveva sposato cinquant’anni fa della pesante offensiva lanciata dagli azeri contro il Nagorno-Karabakh domenica scorsa.

Nella cittadina di Mavrik, Martuni, a cinque chilometri dal confine con l’Azerbaijan, non ci sono basi militari né caserme né tanto meno depositi di armi. Eppure, martedì mattina l’artiglieria pesante di Baku s’è accanita su questo piccolo centro agricolo afflitto da una miseria post-sovietica e che sorge dove finisce la pianura, contro il primo saliente del Caucaso.

“Siamo in guerra da decenni e ho perso il conto dei tanti morti che ho visto. Ma non sopporto l’ipocrisia dei nostri nemici azeri, i quali giurano di voler risparmiare i civili mentre è proprio contro di loro che infieriscono per primi”, dice Mavrik, accompagnandoci lungo una stradina che s’arrampica verso la montagna per mostrarci in lontananza le valli brulle e disabitate dell’Azerbaijan.

Dopo il pesante bombardamento di due giorni fa, la maggior parte degli abitanti di Martuni è fuggita verso Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica dove, tuttavia, la notte scorsa le sirene antiaeree hanno risuonato più volte.

In centro, vicino al teatro comunale, incrociamo pochi soldati del misero esercito locale. Indossano uniformi spaiate e sembrano disarmati, come quelli che vediamo presidiare in un paio di avamposti recentemente creati in fattorie deserte o appena requisite. I muri di molti palazzi ed edifici pubblici presentano i fori provocati da proiettili di ogni calibro.

“Sinceramente non saprei a quando risalgono questi buchi”, dice ancora Mavrik. A saperli decifrare, sulle pareti di Martuni si potrebbe leggere la storia delle numerose battaglie di questa guerra a fasi alterne, iniziata trent’anni fa e ancora irrisolta.

Nel nuovo capitolo del conflitto che oppone gli armeni agli azeri per il controllo dell’enclave, si combatte ormai da quattro giorni e, nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale, il raggiungimento di un cessate il fuoco sembra ancora lontano.

Anche perché ieri, a dispetto degli accorati appelli giunti perfino dal Consiglio di sicurezza e dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, il presidente azero, Ilham Aliyev, ha fatto di nuovo la voce grossa, minacciando di protrarre le operazioni militari fino a quando le forze di Erevan, giunte a dar manforte a quelle del Nagorno, non si ritireranno dalla regione.

“Se il governo dell’Armenia accetta questa condizione, i combattimenti cesseranno, il sangue smetterà di scorrere”, ha detto Aliyev precisando di voler ristabilire la propria “integrità territoriale”.

Già, ma il Nagorno, che ha dichiarato la sua indipendenza dall’Azerbaijan nel 1991, è da allora quasi esclusivamente popolato da armeni, ha scelto l’armeno come lingua ufficiale, la sua chiesa è quella armena ortodossa e perfino la sua moneta è il dram armeno.

Di fronte all’intransigenza di Aliyev, alimentata anche dall’incondizionato sostegno di Ankara, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha detto che l’idea di colloqui di pace sotto l’egida della Russia è prematura. “Un vertice è inopportuno perché sono ancora in corso intensi combattimenti e perché per le trattative servono la giusta atmosfera e le giuste condizioni”, ha spiegato Pashinyan.

Intanto, il ministero degli Esteri russo ha confermato che in Nagorno sono affluiti combattenti dalla Siria e dalla Libia. Nei giorni precedenti sia il governo di Erevan sia alcune ong avevano denunciato l’invio di Ankara di miliziani filoturchi da altre aree di conflitto per sostenere le forze azere.

Due giorni fa il presidente Aliyev aveva smentito, affermando che Baku “non ne ha bisogno”. Ma secondo il ministero russo “combattenti di formazioni armate illegali, provenienti anche da Siria e Libia, sono stati schierati nell’area di conflitto per prendere parte attivamente nei combattimenti”.

Quanto all’atteggiamento bellicoso della Turchia sull’enclave contesa, non è solo il presidente francese Emmanuel Macron a considerarlo “sconsiderato e pericoloso”. Di fronte al sostegno turco a Baku, il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha detto che “non si dovrebbe gettare benzina sul fuoco”.

Ma per la regione caucasica questa nuova fiammata di violenze potrebbe avere almeno un effetto positivo: l’Armenia sta infatti valutando la possibilità di riconoscere l’indipendenza del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaijan, che ancora nessun Paese al mondo riconosce.

Sorgente: Nagorno-Karabakh, tra i disperati in fuga sul confine azero: “Baku non ha pietà” | Rep

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