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Lo scrittore e giornalista vive nella città della Laguna. Alle vicende del suo popolo ha dedicato un’inchiesta storica diventata libro. E ora, nel pieno della crisi del Nagorno-Karabakh, lancia l’allarme: “Temiamo un altro genocidio”

di VERA MANTENGOLI

VENEZIA – Il terrore di un nuovo genocidio agita il cuore degli armeni. Dopo il massacro del 1915 il conflitto in corso tra Armenia e Azerbaigian riporta a galla i fantasmi di un terribile passato, mai stato riconosciuto dallo Stato turco. La guerra che si sta combattendo nella Repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabakh sembra lontana da noi, eppure è molto più vicina di quanto crediamo. Proprio a Venezia, nell’Isola di San Lazzaro dove sorge il monastero degli armeni fondato nel 1717 da Mechitar, due monaci sono stati chiamati alle armi.

È qui che lo scrittore e giornalista Avedis Hadjian, ora residente a Venezia, ha deciso qualche anno fa di ritirarsi per raccogliere gli appunti e le foto del suo viaggio in Turchia, alla ricerca degli armeni che in passato sono stati costretti a convertirsi all’Islam. Ne è nato un libro di più di 500 pagine intitolato Secret Nation. The Hidden Armenians of Turkey, pubblicato nel 2018 da I.B.Tauris e, in questi giorni, sulla scrivania di alcune case editrici che vorrebbero tradurlo in italiano. “Ho viaggiato per quasi due anni per ricucire l’identità armena che la Turchia per secoli ha cercato di cancellare” ha detto Hadjian. “Quello che sta succedendo oggi è l’ennesimo tentativo di cancellarci, questa volta finanziando l’Azerbaigian. Chiediamo al Papa di intervenire e all’Europa di non stare in silenzio”.

Hadjian è nato ad Aleppo nel 1968, ma è cresciuto con altri cinque fratelli a Buenos Aires dove il padre Bedros venne chiamato per dirigere il giornale della comunità armena argentina. In seguito, ha studiato Relazioni internazionali in Inghilterra e ha lavorato come giornalista per Cnn e Bloomberg News in America. Nel 2013 è partito alla ricerca della Nazione Segreta che lo ha portato a stabilirsi definitivamente a Venezia dove ha trovato, finalmente, il luogo dove restare a vivere.

Lei ha scritto il libro nell’Isola di San Lazzaro. Che significato ha questo luogo per gli armeni?
“Il monastero è uno dei più grandi centri di riferimento mondiale per l’Armenia come luogo di cultura e religione. La ricchezza culturale di Mechitar riuscì a far rinascere  intellettualmente e spiritualmente il popolo armeno attraverso la pubblicazione di libri che ne hanno elevato il livello educativo, dopo secolo di turchificazione. Oggi nel monastero dell’isola, grande 7000 metri quadrati, c’è una biblioteca con 170 mila libri di cui 4500 rari e preziosi, incluso il primo dizionario di lingua armena classica, realizzato proprio da Mechitar nel 1749, poco prima di morire”.

“Secret Nation”. Di cosa parla il suo libro?
“Racconta una secolare storia di violenza dello Stato turco contro la minoranza armena che oggi, con molto dolore, vedo riproporsi. Dopo aver imparato il turco a New York sono partito alla ricerca di quegli armeni che in passato, dopo il genocidio del 1915, sono stati costretti a convertirsi. Non avevo una mappa da seguire precisa, mi spostavo via via raccogliendo delle informazioni on the road. Viaggiavo in autobus perché così potevo scrivere e fotografare. Prima di partire pensavo che avrei trovato parte della comunità armena in un altro luogo, ma invece ho trovato una grande molteplicità di tipologie che mi hanno fatto capire come ci sia un’evoluzione in corso della nostra identità”.

Cosa l’ha colpita di più nel suo viaggio?
“Sono cresciuto in Occidente e, con una certa ingenuità di chi vive in Paesi liberi, andavo alla ricerca di armeni nei villaggi turchi. Mi guardavano basiti, qualcuno pensava che fossi una spia. Quando incontravo degli armeni non tutti volevano parlare. Forse è difficile capirlo per chi non ha vissuto un genocidio, ma tutti noi abbiamo qualcuno morto nel massacro di un milione e mezzo di persone perpetrato dalla Turchia e tutti noi viviamo nell’angoscia che possa risuccedere. Un giorno stavo parlando nella provincia di Artvin, nel nord-est della Turchia, vicino al confine con la Georgia, con un uomo di una minoranza armena islamizzata. Dopo che gli ho raccontato le storie del genocidio, sentite da mia nonna, lui mi ha detto che gli anziani del villaggio raccontavano ai bambini come avevano ucciso gli armeni buttandoli dai precipizi. Un’altra volta ho incontrato una famiglia, parente lontana dell’ex arcivescovo di New York Oshakan Tcholoyan. È sempre stata una famiglia molto religiosa e ha continuato a esserlo dopo che è stata islamizzata dato che ha otto Imam. È stato molto doloroso vedere antiche chiese,  gloria dell’architettura armena, convertite per forza in moschee, come la cattedrale della Santa Maria Vergine di Antap, adesso in turco Gaziantep. Una chiesa convertita per forza che cos’è?”.

È tornato cambiato?
“Sono partito senza preconcetti e, prima di questa guerra in corso, quando sono tornato mi sentivo più predisposto ad accettare. Si dice che per elaborare il lutto ci vogliano cinque passaggi: negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. Ecco, appena tornato mi sentivo nell’ultima fase, ma ora mi sembra di essere regredito alla seconda, la rabbia. Il genocidio del 1915 è ancora una ferita aperta. Prima della guerra in un certo senso sentivo un rapporto diverso con la mia parte traumatizzata e anche con lo Stato turco come autore del genocidio. Il mio viaggio è stato una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di quegli armeni di cui non si parla mai e, ripercorrendo i luoghi della storia, ho sentito che metaforicamente avevo sepolto i morti. Quando è scoppiata la guerra e ho visto giovani che potrebbero essere miei figli andare a morire al fronte mi è tornata una grande rabbia”.

Che cosa pensa di quello che sta accadendo oggi?
“La riconversione della cattedrale di Santa Sofia in moschea, dopo che nel 1923 Mustafa Kemal l’aveva trasformata in museo per superare le ostilità, è la metafora di come si stia tornando indietro e delle aspirazioni imperialiste di Erdogan, al potere da 17 anni. Penso che l’Armenia sia schiacciata da due stati oppressori e che sia vittima di un odio che va avanti da secoli. L’origine di questo odio risale al graduale crollo dell’Impero Ottomano davanti ai Paesi cristiani. Sotto il sultano Abdul Hamid II, a fine Ottocento, è stato promosso sistematicamente il massacro dei cristiani, soprattutto degli armeni che, dopo essere stati conquistati, erano nel territorio ottomano. Purtroppo, ancora oggi emerge un Paese oppressivo che, sotto Erdogan, è diventato nazionalista e islamista con un’aperta ostilità verso le altre religioni. Un esempio sono i gruppi ultranazionalisti che sono usciti sventolando le bandiere della Turchia e dell’Azerbaigian nei quartieri armeni di Istanbul e davanti al Patriarcato per festeggiare l’attacco della Turchia e dell’Azerbaigian contro l’Armenia. Ci tengo però a dire una cosa: noi non siamo arrabbiati né con il popolo turco, né con quello azero, ma con lo Stato turco e lo Stato azero”.

Avete paura di un altro genocidio?
“Il terrore di quello che è stato fatto c’è sempre, soprattutto perché la Turchia non lo ha mai riconosciuto. Lo scorso luglio, in Parlamento, Erdogan si è schierato apertamente con l’Azerbaigian e contro gli armeni dicendo che avrebbe continuato il lavoro che hanno iniziato i nostri nonni. Un modo per dire, nemmeno tanto indirettamente, che si continuerà a opprimere il nostro popolo”.

Come stanno vivendo gli armeni adesso?
“Ci sono molte comunità armene nel mondo, nate proprio per fuggire alla continua repressione turca che, in passato, era anche legittimata a livello giuridico. Gli armeni per esempio non potevano avere armi e dovevano pagare una tassa per essere di una religione diversa. Capite che tutto questo, con l’aggiunta del mancato riconoscimento del massacro, torna a galla. Ci sentiamo sempre con chi è in Armenia e vorremmo essere più vicini perché siamo solo tre milioni e mezzo di persone e abbiamo paura che le forze non siano sufficienti. Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha detto che i Turchi non riusciranno a ripetere il massacro e vogliamo credere alle sue parole. È difficile però quando si vedono bombardati scuole e palazzi residenziali pieni di civili pensare che sia possibile avere un dialogo con uno Stato che sta appoggiando militarmente l’Azerbaigian, anche offrendo F16 e perseguendo l’obiettivo di espandersi non solo a livello territoriale, ma anche religioso”.

Cosa state facendo per i vostri connazionali?
“Stiamo cercando di inviare aiuti economici perché stiamo parlando di un piccolo Stato che piano piano era riuscito a uscire dalla disastrosa economia sovietica. È l’unico Paese democratico del Caucaso, con un livello di educazione altissimo e libertà di stampa, ma attaccato da due Stati oppressori”.

Dall’Italia cosa vi aspettate?
“Abbiamo avviato una petizione per chiedere a papa Francesco di intervenire. Dall’Italia per adesso non c’è stata nessuna presa di posizione. Vorremmo sostegno e non solo morale, ma concreto, come imporre sanzioni a chi sta cercando di toglierci ancora la libertà”.

Sorgente: Avedis Hadjian: “Da Venezia vi racconto la tragedia di noi armeni” | Rep

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