0 8 minuti 4 anni

Milena Gabanelli, “il mio candidato premier ideale è muto ...

 

Dall’Europa arriveranno tanti soldi, ma una delle condizioni è la riforma della pubblica amministrazione, ovvero rendere efficiente la burocrazia. Ci hanno provato tutti i governi a partire da Bonomi nel 1921, e i nodi che legano una palla al piede dell’Italia erano già tutti elencati nei rapporti del ministro Giannini (1979) e Cassese (1993). Sono sempre gli stessi di oggi, e che il decreto semplificazioni nemmeno sfiora, a partire dalla parte più semplice: cioè mettere ordine nelle leggi copiando modelli che funzionano. In Francia il 70% delle norme sono «a diritto costante», cioè se su una materia si interviene con una nuova legge quella vecchia viene eliminata. In Germania si utilizzano i codici per «incasellare» le leggi. Da noi è come cercare in biblioteca un libro senza lo schedario.

Semplificare le autorizzazioni

Il compito più difficile è mettere mano ai procedimenti autorizzativi. Se per fare un’opera devo fare domanda a Regione, Soprintenza, Asl, Vigili del fuoco, tanto vale presentarla contemporaneamente a tutti gli enti, così si riducono i tempi. Oggi chi deve aprire un bar ha bisogno di 72 autorizzazioni, 65 un parrucchiere, 86 per un autoriparatore (fonte Cna).

Nel 1990 ci abbiamo provato con la legge 241: disponeva la semplificazione di una serie di processi autorizzativi, ma quando è arrivata l’ora di sceglierli ne sono stati individuati solo 13. Il ministero degli Interni ne segnalò solo uno: l’allevamento dei piccioni viaggiatori. Il problema, ora come allora, è che a decidere «cosa» semplificare sono le stesse amministrazioni pubbliche, ma nessun ufficio vuole ridurre le proprie competenze e la politica non ha mai avuto il coraggio di intervenire.
Ridurre le stazioni appaltanti

Il decreto semplificazioni è intervenuto sulle gare: non si dovranno più fare per importi fino a 150 mila euro, e con procedure negoziate a inviti fino a 5,35 milioni di euro. Punto. Per molti esperti è una scelta giusta se circoscritta ai lavori da fare in urgenza, diversamente è alto il rischio di penalizzare le aziende più efficienti, aprendo la strada a favoritismi. Tanto più che il contenzioso sulle gare incide in Italia meno del 5% e i giudizi vengono definiti in primo e in secondo grado entro un anno. Dopo aver partecipato a numerose commissioni sull’efficienza della burocrazia dagli anni ’90 a oggi, il professor Aldo Travi suggerisce che per accelerare le opere, in circostanze normali, «sarebbe utile avere una sola stazione appaltante in ogni Regione e una centrale a Roma per i grandi appalti e le gare delle amministrazioni statali», poiché le opere sono spesso rallentate dai piccoli Comuni che non hanno personale competente e strutture adeguate per gestire le gare.

Riportare i tecnici negli uffici

Le strutture tecniche negli anni sono state sventrate dalla spending review e dalle norme che hanno via via ridotto le competenze specializzate. Ne è la prova il dipartimento del ministero dei Trasporti incaricato dei controlli sulle attività delle concessionarie su ponti e viadotti, ma privo di personale qualificato. Le conseguenze sono 13 crolli in 7 anni. Al ministero delle Infrastrutture due terzi del personale è amministrativo e solo un terzo tecnico. Inoltre i meccanismi che regolano le carriere non incentivano le professionalità perché non considerano i risultati prodotti. Brunetta aveva provato a introdurre forme di premialità, ma non ha funzionato. Di fatto gli obiettivi dati ai dirigenti sono talmente generici (ad esempio per le Infrastrutture può essere «bandire gare») che gli incentivi vengono elargiti a pioggia. Il tentativo di premiare gli insegnati più meritevoli è naufragato miseramente nonostante fosse contenuto in un accordo collettivo sottoscritto dai sindacati. «Bisognerebbe attuare in modo rigoroso la norma costituzionale che impone l’accesso nell’impiego pubblico solo per concorso e gestire anche la progressione interna di carriera tramite esami – dice Travi – inserendo nei punteggi anche i risultati ottenuti durante la propria attività».

Bloccare i «signor no»

Un esempio su tutti. È il 2001 e il piano provinciale rifiuti di Firenze prevede la costruzione di un termovalorizzatore. Ci sono voluti 15 anni per decidere dove costruirlo, definire le dimensioni, bandire la gara, il progetto, le linee guida, le autorizzazioni ambientali. Quando era tutto pronto sono partiti i ricorsi al Tar e poi al Consiglio di Stato, che a marzo di quest’anno ha stabilito che non si deve fare. Così i rifiuti si andranno a bruciare da qualche altra parte. È indicativo di un sistema malato dove anche le opere strategiche sono bloccate sia dai comitati cittadini (non coinvolti da subito in opere che impattano) che dai Comuni (per ragioni puramente elettorali). Secondo Travi Il potere di interdizione può essere fermato in due modi: stabilendo con una legge l’inefficacia di tutti gli atti che possano pregiudicare l’attuazione di una infrastruttura oppure prevedendo sanzioni a carico di chi li adotta.

Non ostacolare chi fa

I tempi delle pratiche si allungano perché i burocrati hanno paura a mettere una firma nel timore di assumersi una responsabilità; chi invece la firma ce la mette rischia di essere penalizzato. Il professor Crisanti, all’inizio della pandemia, aveva iniziato a fare tamponi a tappeto. Ebbene, il direttore generale dell’azienda ospedaliera di Padova minacciò di perseguirlo per danno erariale. Poi i fatti hanno dato ragione a Crisanti. Con il decreto Semplificazioni gli atti che generano danno erariale restano punibili solo se dolosi (ma non lo sono più se dovuti a colpa grave). Quando invece a generare danno erariale è una mancata decisione, allora la punibilità resta sia per colpa grave che per dolo. Il reato di abuso d’ufficio, inoltre, viene escluso nel caso in cui riguardi regolamenti e non leggi. Tirando le somme, il decreto consente di assolvere il funzionario che prende iniziative in buona fede, mentre per chi continua a palleggiarsi le carte non ci sono sconti. Ma si tratta di una modifica che vale fino al 31 luglio 2021. E dopo?

Razionalizzare gli enti

In materia ambientale le competenze si segmentano fra 4 ministeri (Ambiente, Salute, Interno, Agricoltura), 20 Regioni, 110 Province, oltre 8 mila Comuni, Camere di commercio, Asl, Arpa. Nel 2008 viene creata con una legge l’Ispra che deve coordinare le Arpa. Eppure i problemi ambientali restano: dall’Ilva alla terra dei fuochi, ai siti contaminati che erano 40 nel 2014 e tali sono rimasti.

Se prendiamo un’attività artigiana con consumo di alimenti sul posto, per esempio una pizza al taglio, i soggetti incaricati dei controlli sono 21. E quando tutti devono controllare alla fine, spesso, non controlla nessuno oppure si tartassano i cittadini sovrapponendo le verifiche.
Razionalizzare gli enti però vuol dire cancellare poltrone e centri di potere. Nessun burocrate intende rinunciarvi e la politica non interviene per timore di perdere consenso: la pubblica amministrazione rappresenta un quinto della forza lavoro dell’intero Paese. Una immobilità ben descritta dal noto economista Paul Samuelson, secondo il quale «le regole sono fissate, abbandonate e manipolate con discrezionalità». È questa la madre di tutte le riforme da inserire dentro il piano nazionale da presentare a Bruxelles.
Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20