Strage di Ustica, il labirinto della verità: cosa sappiamo a 40 anni dall’incidente | Rep
Sono passati 40 anni esatti dalla strage di Ustica. Ma la morte di 81 persone a bordo del DC-9 Itavia rimane senza responsabili. Oggi nuovi documenti offrono tracce inesplorate per portare avanti le indagini. Dalle rivelazioni sulle missioni segrete di Parigi ai misteri della base di Aviano, dalle testimonianze sui raid di Gheddafi alle manovre dei nostri generaliDI GIANLUCA DI FEO (COORDINAMENTO E TESTO), GIOVANNI EGIDIO (BOLOGNA), ANAIS GINORI (PARIGI), CONCETTO VECCHIO (ROMA). COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL. CON UNA VIDEOINTERVISTA DI VALERIO LO MUZIO E ANTONIO NASSO
“Prima di tornare a casa dimentica tutto quello che hai detto, letto e fatto! La tua famiglia vuole soltanto te”. Il manifesto scolorito è rimasto affisso sulla parete della grande base sotterranea. Un monito ripetuto in italiano e in inglese, con quel riferimento alla famiglia che se pronunciato da un mafioso verrebbe qualificato come una minaccia. Invece si trova all’ingresso di un bunker della Nato, scavato nel ventre del monte Moscal, in Veneto. Il comando è stato smantellato da tempo, ma l’avvertimento rimane: “Dimentica tutto quello che hai detto, letto e fatto!”. Ed è questa la consegna del silenzio che continua a imprigionare la verità su Ustica.
Il 27 giugno 1980, mentre il DC-9 Itavia con81 persone a bordo si frantumava nella luce del tramonto, in quella centrale a prova di bomba atomica trecentocinquanta militari italiani e americani tenevano sotto controllo i cieli d’Italia, aggiornando le posizioni su una mappa alta tre metri. Si chiamava West Star, la Stella d’Occidente, e in teoria era una base segreta. Tanti però la conoscevano: era stata evocata subito nelle conversazioni degli uomini radar che cercavano una spiegazione alla scomparsa dell’aereo decollato da Bologna.
Ma nessun magistrato è andato lì a chiedere informazioni o documenti. Mai. Adesso quelle gallerie sono un labirinto popolato dai fantasmi della Guerra Fredda: il tempo si è fermato all’era del dottor Stranamore di Stanley Kubrik, scandita dalle cartine dei missili pronti al lancio e dagli elenchi dei caccia intercettori in perenne allerta. La forza soffocante delle cupole di cemento e acciaio, costruite per sopravvivere all’apocalisse nucleare, aiuta a capire perché non sia stato individuato un responsabile per la morte di quattro membri dell’equipaggio, 64 passeggeri adulti, undici bambini tra dodici e due anni, due neonati. “Dimentica tutto quello che hai detto, letto e fatto!”. Una regola ferrea, condivisa dall’Italia e da tutti i Paesi, amici o nemici, chiamati in causa per la distruzione del volo Bologna-Palermo, che ha resistito alla caduta di qualunque muro.
Dopo quarant’anni non sappiamo chi abbia sbriciolato il Dc-9. Quando è precipitato nell’abisso, veniva chiamata “la tragedia di Ustica”. Quando otto anni dopo è riemerso dal mare, un pezzo alla volta, invece era chiaro che si trattasse della “strage di Ustica”. Poi il velivolo ha ripreso forma nel Museo per la Memoria di Bologna, trasformandosi in un colossale atto d’accusa. “Ogni piccolo particolare era una deduzione – ha scritto Daniele Del Giudice in un capitolo di “Staccando l’ombra da terra” -, gli strumenti di bordo come i tappetini e la moquette, tranciata di netto all’altezza della quarta fila di sedili. Che ne sanno gli oggetti delle trame e delle azioni? Che ne sanno dei mandanti e degli esecutori, gli oggetti sono lì. Sarebbe la storia dell’aereo, perché l’aereo conosce la sua storia”. Quel relitto resta un’invocazione di giustizia, tenuta viva da quelle lampadine sempre accese, una per ogni vittima.
Soltanto l’accanimento dei familiari ha impedito che tutto venisse sepolto per sempre in fondo al Tirreno. Ma le inchieste di magistrati e parlamentari sono partite troppo tardi. Testimoni chiave sono stati ascoltati dopo dieci anni. Carte e nastri sono spariti senza venire sequestrati. Rogatorie all’estero hanno trovato risposta, spesso parziale o reticente, dopo un quarto di secolo. Ogni passo in avanti, ogni reperto, ogni perizia invece di stabilire certezze hanno aumentato i dubbi e diviso le interpretazioni.Persino il recupero dei 2.500 frammenti che hanno ricomposto il jet. Persino la scatola nera con le voci dei piloti, che si interrompono con un “Qua…” o un “Gua…”, riletto da una recentissima analisi di RaiNews24 come “Guarda…“. I giudizi dei tribunali hanno dato esiti paradossali. La grande istruttoria del giudice Rosario Priore, chiusa con un’ordinanza di oltre cinquemila pagine, ha ricostruito una scenario di guerra: il DC-9 si è trovato in mezzo a una battaglia, venendo abbattuto da un missile o dall’onda d’urto di un caccia che lo ha sfiorato a velocità supersonica. Priore ha incriminato una decina di ufficiali dell’Aeronautica per depistaggi e omissioni, senza però individuare i colpevoli della strage. I dibattimenti penali poi hanno gradualmente smontato le prove, assolvendo tutti in maniera definitiva.
Opposte le sentenze dei giudici civili, anch’esse definitive e inappellabili, che invece hanno condannato al risarcimento i ministeri della Difesa e dei Trasporti per non avere protetto l’aereo dell’Itavia dai jet di nazionalità ignota che l’hanno abbattuto in una notte di guerra non dichiarata. Neanche il verdetto della Cassazione civile ha sopito le polemiche. Perché queste corti decidono in base al principio della “probabilità più elevata”. Quindi la correttezza giuridica impone di dire che non abbiamo la verità su Ustica, ma c’è “la più elevata probabilità” che quella sera sul Tirreno si sia combattuto uno scontro feroce.
Repubblica si occupa di questo dramma dal primo momento. Due generazioni di giornalisti si sono impegnate per trovare un filo nel labirinto di indizi e menzogne. In questa inchiesta abbiamo provato a rileggere le ipotesi che sono state prese in considerazione durante quattro decenni e che trovate sintetizzate in una scheda video. Abbiamo analizzato documenti internazionali finalmente desecretati e altri che non sono mai arrivati sul tavolo degli inquirenti. Abbiamo ascoltato protagonisti delle vicende politiche, esperti di aviazione e testimoni dei fatti, alcuni dei quali ancora oggi ci hanno opposto il silenzio. Insomma, abbiamo tentato di unire tanti punti di questa trama, nella speranza di ottenere un disegno più definito o quantomeno con minor confusione.
C’è una sola certezza. L’unica strada per capire cosa è accaduto parte dagli elementi raccolti nell’immediatezza della strage: come le registrazioni delle telefonate delle centrali di controllo aereo. Quelle conversazioni incise nei minuti in cui il DC-9 sparisce dagli schermi citano tracce di aerei statunitensi, portano a ipotizzare una collisione in volo, si interrogano sulla presenza di una portaerei. E sulle mappe del radar Marconi di Ciampino, l’unico gestito da civili, si notano le impronte intermittenti di jet mai identificati. Centinaia di analisi tecniche commissionate negli anni successivi non sono riuscite a dare una spiegazione incontestabile, tanto che la corte penale d’appello ha scritto: “È stato il fallimento della scienza a determinare la sconfitta della conoscenza”.
Anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Erminio Amelio, che dal 2008 portano avanti l’ultima indagine, dopo avere interrogato ufficiali di molti Paesi e cercato atti in mezzo mondo, fanno leva su un pugno di testimonianze coincidenti e indiscusse per provare a scardinare i forzieri del segreto. Ogni volta che nel muro sembra aprirsi una crepa, cercano di sfruttarla per fare luce. Sono come archeologi, che scavano negli strati di disinformazione per arrivare a estrarre prove incontaminate. Ma neppure loro finora sono riusciti a trovare un nome e l’inchiesta sembra destinata all’archiviazione.
Che sarà solo formale, perché il reato di strage non si prescrive e il fascicolo potrà essere riaperto davanti a ogni brandello di novità. Si comprende che i due pubblici ministeri però che restano convinti di quanto sostenuto nel primo processo: quelle 81 persone sono state travolte da un’operazione militare che rimane ancora inconfessabile.
Per rendersi conto della complessità che avvolge l’affaire Ustica bisogna entrare nelle dinamiche geopolitiche dell’estate 1980, quando cambiano i confini della Guerra Fredda. L’Italia oltre a trovarsi sulla trincea orientale del confronto tra Nato e Patto di Varsavia, finisce anche sulla prima linea del fronte Sud che proprio allora si apre nel Mediterraneo. Nello scontro tra i due blocchi si inseriscono le tensioni dei Paesi arabi, a partire dalla Libia: terroristi di ogni fede diventano strumenti di potenze grandi e piccole.
Il sospetto regna sovrano, con spie doppiogiochiste in azione ovunque: tutti osteggiano Gheddafi e contemporaneamente tutti lo aiutano di nascosto. I nostri governi e i nostri servizi segreti si muovono in maniera spregiudicata, difendendo ora l’interesse atlantico, ora quello nazionale, ora quello di partito e spesso quello personale e di entità occulte come la loggia P-2, che sarà smascherata un anno dopo. Come Arlecchino, servono più padroni in una trama ancora più fitta di quella che ha coperto le bombe neofasciste della strategia della tensione: per Ustica, alleati e rivali sono rimasti fratelli nel custodire il mistero con ogni arma.
Nessun cedimento
“Ma quale mistero?”. Daria Bonfietti, impegnata da quarant’anni esatti a cercare la verità sulla strage di Ustica, alla parola “mistero” ha un sussulto di indignazione. E scoramento. “E quale sarebbe il mistero? Quella sera del 27 giugno 1980 nei cieli d’Italia andò in scena, in tempo di pace, un episodio di guerra. Punto. Verità accertata dai giudici con sentenza passata in giudicato nel 1999. Più di venti anni fa. E in quell’episodio di guerra fu abbattuto l’aereo DC-9 su cui viaggiavano 81 civili. Uno di loro era mio fratello”. Alberto Bonfietti aveva 37 anni, era partito in direzione Palermo per raggiungere la moglie e la figlia. Daria ricorda l’ultima telefonata. “Ciao, divertiti, fatti sentire, a presto”. Poi ricorda bene anche un’altra telefonata, verso le 11 di sera, carica di angoscia e grida: “Alberto ha preso proprio quell’aereo???”.
Sì, proprio quello.Finito nei fondali di Ustica “per cedimento strutturale”, come fu detto inizialmente allora. E come fu sostenuto a lungo, per anni.Ora quell’aereo è qui, di fronte a Daria Bonfietti, ricostruito per quel che si è potuto intorno a uno scheletro di ferro in questo museo nella prima periferia di Bologna. La carena, le ali, un po’ di muso. Intorno delle scatole nere. Non quelle contenenti i segreti di quel volo maledetto, ma quelle pensate dalla pietas con cui l’artista Christian Boltansky ha immaginato e realizzato questo museo, infilando nelle scatole nere gli effetti personali delle vittime ripescati in mare.
Intorno all’aereo, illuminato dall’alto da 81 lampadine, ci si può girare, ascoltando voci di vite vissute e spezzate. Daria Bonfietti si affaccia alla balaustra, indica un’ala. Se le chiedi di raccontare, per prima cosa ti dice: “Fermami tu”. Poi inizia. “Cedimento strutturale, fu detto. Non da un passante, da fonti ufficiali. L’Italia mentì, alcuni dei suoi alti ufficiali mentirono – e hanno pagato dazio, con condanna per alto tradimento -, altri alti ufficiali probabilmente mentono tutt’ora, se sono ancora vivi. Io questo mi chiedo, possibile che nessuno si indigni del fatto che su questa strage ancora non si sappia la verità?”
“Perché una verità c’è: un missile ha abbattuto un aereo civile italiano. Ma nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarla. Anzi, per anni si è cercato di coprire il tutto con una menzogna di Stato inaccettabile per una democrazia, drammatica per noi che avevamo subito un lutto”. I parenti delle vittime che ogni 27 giugno si trovano – dal 1988 in poi, cioè dal giorno in cui Daria Bonfietti decise di fondare l’associazione – sono circa una trentina ogni volta, più della metà di loro viene dalla Sicilia. Negli anni si sono anche costituti parte civile. Lei li ha trainati fino a questo quarantesimo anniversario. “Come faccio a fermarmi se manca ancora la verità?”“Io credo vada cercata ad ogni costo. Vada pretesa. E dev’essere il governo a pretenderla. Qualsiasi governo, di qualsiasi colore. Quella notte, sul cielo di Ustica, volavano francesi, americani, belgi, inglesi, libici. Chi ha sparato il missile? Ci sono 81 vittime. E ci sono miriadi di pagine di atti processuali che hanno accertato quell’episodio di guerra. Quarant’anni dopo, una troupe televisiva è perfino riuscita a ripulire un nastro per capire che il pilota diceva all’altro ‘guarda’. Fino a poco tempo fa pensavamo avesse detto ‘qua’. Invece ha detto ‘guarda’. E’ un altro brandello minimo di verità che esce, incredibilmente, dopo tutto questo tempo. Ma che ci incoraggia ad andare avanti, a insistere, a chiedere. E’ un nostro diritto, è un dovere dello Stato“.
Un cielo di guerra in una notte d’estate. Questo hanno raccontato gli atti processuali. Aerei di diverse nazionalità. L’ipotesi che l’obbiettivo potesse essere Gheddafi, la cui presenza non fu mai accertata, anche se venne evocato un volo Tripoli-Varsavia in transito sui cieli siciliani. La certezza che tutto quello che stava accadendo, era, alla luce delle indagini, quasi normale per quei tempi.
“Il contesto storico in cui accade la strage di Ustica è importantissimo per spiegare e per capire. Le tensioni internazionali, gli accordi coi libici, l’influenza degli Usa. Giudici e storici, entrambi ci hanno aiutato a ricostruire quell’episodio di guerra incredibilmente andato in scena in tempo di pace. Anni in cui, come usava dire Andreotti, il nostro paese aveva la moglie americana e l’amante libica”.
Un anno cruciale, il 1980. Il 27 giugno parte da Bologna l’aereo che verrà abbattuto; poco più di un mese dopo sempre a Bologna scoppia la bomba alla stazione, facendo altre 84 vittime. Gli storici, abituati a buttare lo sguardo oltre l’ostacolo, raccontano di scenari che proprio in quel periodo mutavano rapidamente. La guerra fredda che cambia natura, la politica estera americana che entra ancor più in collisione con l’Unione Sovietica in affanno, l’affermarsi del regime di Khomeini in Iran, l’ingombrante influenza di Gheddafi su tutto il Mediterraneo.
Un contesto che si può immaginare denso di tensioni latenti e che rende credibile come sui cieli d’Italia fosse stato per nulla straordinario immaginarsi quegli aerei battenti bandiera francese, americana, inglese, libica, belga. Ma chi spara e perché? La ricostruzione più credibile è che il missile sia partito da un aereo americano (la cui presenza fu accertata) o francese, diretto al velivolo libico, coperto in traiettoria dal Dc-9 Itavia, sotto la cui ala si faceva scudo. Ma è solo una ricostruzione, per quanto credibile.
“L’Italia può e deve ancora reclamare con forza che i Paesi a lei alleati, Usa e Francia in primis, ci dicano quello che non ci hanno mai detto. O che tengono in qualche cassetto. Io so che sono in corso rogatorie internazionali che hanno chiesto i giudici Monteleone e Amelio, alla ricerca di testimoni che potrebbero sapere, spiegare, raccontare. Forse in America, o anche in Canada. Ecco, io credo che se è in corso un’iniziativa così importante della magistratura, la politica, la diplomazia, dovrebbero sforzarsi di spalleggiarla, come minimo. Anche perché l’indagine è aperta, la magistratura sta facendo le sue attività, ma serve l’apporto determinante del nostro Paese per creare pressioni sugli Usa e sulla Francia“.
“Credo sia legittimo che un governo, il nostro governo chieda cosa ci facevano il 27 giugno del 1980 i loro aerei nei nostri cieli, in tempo di pace. Ma che non sia una mera pressione d’ufficio, e che sia invece reale, motivata. Si devono pretendere le risposte, pena, ipotizzo, una qualche tipo di sanzione o di riprovevole considerazione, come minimo. Anche perché non sempre i governi sono stati tiepidi nell’interessarsi al caso, questo va detto. Il governo Prodi-Veltroni nel 1996, per esempio, sostenne l’azione del giudice Priore che chiese di andare alla Nato. E grazie all’intervento del nostro esecutivo ottenne il via libera. Fu così possibile decrittare i tabulati Nato di quella notte, e si mise un altro punto fermo di questa storia: cioè si stabilì che quella notte non era in corso alcuna operazione a loro riconducibile. E che quindi bisognava chiedere conto ai singoli Paesi. Questo per dire che se la politica vuole, smuove“.
Sorgente: Strage di Ustica, il labirinto della verità: cosa sappiamo a 40 anni dall’incidente | Rep
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