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Intervista. Il regista, nome di punta nelle nuove generazioni del cinema spagnolo, parla del suo nuovo film, «El año del descubrimiento». Ambientato nel ’92 a Cartagena, esprime il sentimento del presente

Cristina Piccino

L’anno è il 1992, il luogo una cafeteria a Cartagena, centro industriale nel sud della Spagna, i giorni quelli delle proteste contro la chiusura delle fabbriche e dei cantieri navali fino all’incendio del parlamento regionale. È un evento simbolicamente forte, e soprattutto in netto contrasto con l’immagine prevalente del Paese di modernità e allegria, avviata un decennio prima dalla fine della dittatura e dalla vittoria elettorale del partito socialista di Gonzalez, che i due appuntamenti dello stesso anno sottolineano con grande enfasi: le Olimpiadi e l’Expo di Siviglia. Sarà forse per questo che quei fatti sono stati messi da parte, rimossi o «dimenticati» dalla narrazione collettiva? Da qui Luis López Carrasco, nome di punta nelle nuove generazioni del cinema spagnolo, ha iniziato il lavoro sul suo nuovo film, El año del descubrimiento, presentato a Rotterdam nella sezione Bright Future, che girato con attori non professionisti, tutti della Murcia, la regione dove è nato anche il regista, ritrova i discorsi di quei giorni: paura, incertezza, esasperazioni, la perdita di fiducia e di un sogno del futuro. Usando lo split screen, tra immagini di archivio e frammenti quotidiani, il regista restituisce l’«aria del tempo» nei discorsi che rimbalzano da uno all’altro, dai più giovani a gli anziani, in cui prevale l’incertezza che si fa diffidenza, l’ansia, il sospetto.
C’È CHI come una ragazza dorme un’ora a notte e lavora sempre, nel precariato più totale, per pochi soldi, chi ha paura di tornare a casa la sera perché il quartiere è dominato da spacciatori e prostituzione e se sei una donna le macchine si accostano pensando che possono comprarti. Chi non ha i soldi per la spesa, chi riflette sul dilagare della mania del gioco in risposta alla miseria, chi è arrabbiato e pure molto perché ha perso il lavoro e sa che non ne avrà degli altri. Tutti credono poco alla politica, non si fidano più delle istituzioni, le promesse sono vuote: siamo nel 1992 ma sembra di essere oggi.

Non è prima volta che Carrasco lavora sulla memoria come chiave d’accesso all’attualità, il suo precedente film, El futuro, si svolgevadieci anni prima, nel 1982, la sera della vittoria socialista, quando la Spagna è uscita dal franchismo e tutto sembrava possibile: musica, alcol, caos festeggiano la vittoria, eppure in quell’home movies di un attimo della Storia – che sembra fuori campo- è come se il presente scorgesse già le ragioni del fallimento a venire.
Dice il regista: «Nel 2011 la Spagna dove avevo vissuto non esisteva più. Le istituzioni erano state colpite dalla crisi economica e politica, quello che avevo costruito per il mio futuro era scomparso: vivevo nello stesso Paese che era diventato un altro. Tra il 2011 e il 2014 molte persone, e non solo tra i miei amici emigravano, chi in Polonia, chi in Vietnam o in Messico. Ho iniziato a fare film anche per capire cosa stava succedendo, guardare nel passato mi poteva aiutare a mettere a fuoco il presente. Io sono nato a Murcia ma Cartagena è la città sede del Parlamento ed è il centro industriale e militare della regione. Tornare al 1992, che penso sia una data importante nella nostra storia, mi ha permesso di illuminare meglio i conflitti che viviamo oggi».

In che senso?
In El futuro avevo scelto di riflettere sugli anni Ottanta che sono quando in Spagna l’idea di modernità coincide con quella del futuro mentre per la classe media, specie nelle grandi città, arriva la felicità. In quello stesso periodo però molti gruppi sociali spariscono dalla rappresentazione mediatica, nel cinema e altrove l’immagine della nostra società diviene omogenea. Anche il 1992 a Cartagena riguarda una memoria collettiva, tutti i personaggi che incontriamo nel film hanno vissuto – o conoscono – quanto è accaduto lì negli anni Novanta, che poi coincide col processo di de-industralizzazione. In entrambi i casi la classe sociale ci cui si parla è la stessa, cioè la classe media che dalle promesse è passata alla sofferenza e si è sentita abbandonata in un limbo. Il cast è stato fatto con lavoratori, studenti, disoccupati, ognuno interpreta sé stesso parlando della realtà che lo riguarda. Molti problemi degli anni ’90 sono gli stessi così come gli effetti della crisi del 2011 sono ancora tutti lì. Abbiamo lavorato su questa ambiguità, siamo nel 1992 ma potremmo essere oggi, e anche per questo abbiamo messo da parte l’idea iniziale di ricostruire la data in questione – come avevo fatto con il 1982 in El futuro. Ascoltando le interviste ai lavoratori che avevano preso parte alle proteste abbiamo capito subito che non potevano essere soltanto delle fonti di informazione: dovevano essere nel film perché nessuno li aveva mai visti o aveva ascoltato i loro racconti, Questo ha determinato lo stile del film, ce è tra documentario e racconto a partire dalla corrispondenza tra passato e presente. I vestiti posso appartenere agli anni ’90 o a oggi, e quando le persone parlano della crisi, della fatica a sopravvivere sollevano le stesse questioni che ascolto oggi. Del resto specie nei piccoli centri, il tempo sembra essersi fermato.

In Spagna ci sono state da pochi mesi le ennesime elezioni, anche stavolta non sembra che sia cambiato molto.
Da quando ho girato, nel 2018, la situazione è peggiorata se pensi che un partito dell’ultradestra come Vox è diventato il terzo partito più votato nella Murcia, e per la prima volta da quando abbiamo la democrazia è in Parlamento. Ascoltando i discorsi nel mio film, si avvertono i sentimenti reazionari che dominano la regione, e se la working class non ha votato, la classe media che si è impoverita ulteriormente si è spostata a destra sentendosi ancora una volta tradita. La destra gioca proprio con queste frustrazioni, con la mancanza di stima per sé stessi che si è diffusa. Anche i partiti conservatori sono considerati corrotti mentre i nuovi populisti vengono visti come dei «ribelli», sono una forza contro il sistema.

Perché hai utilizzato lo split screen in tutto il film?Funziona molto bene ma poteva essere stilisticamente una scelta rischiosa. 

È una decisione che abbiamo preso al montaggio (il montatore molto bravo è Sergio Jimenez), ci permetteva di creare una continuità tra i diversi personaggi, e un’immersione organica nel luogo in cui si svolge il film. Ci sono circa 40 personaggi, questo ha reso il montaggio molto lungo – abbiamo lavorato nove mesi. L’idea era di mostrare prima il territorio, il quartiere dove vivono, poi il lavoro – e tutto per la maggior parte attraverso le loro parole. Anche qui lo split screen ci ha aiutati, ci ha permesso una maggiore fluidità, rendendo possibile restituire la vicinanza che c’era durante le riprese – siamo una piccola troupe – e il modo in cui abbiamo lavorato con i nostri attori – che sono tutti non professionisti – dimenticando spesso di essere in un film.

Sorgente: Luis López Carrasco, il passato racconta la Spagna della crisi | il manifesto

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