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di Luigi Manconi

Toh, ma gli operai non erano scomparsi? Travolti dai processi di ristrutturazione, parcellizzati, disseminati sul territorio, a tempo determinato, cassintegrati, subappaltati, precarizzati e sommersi dal terziario avanzato, arretrato, primitivo?

Ed eccoli, invece, con i loro volti seri e i loro abiti sgualciti, in tutti i servizi televisivi, e in tutte le prime pagine, affollarsi intorno al premier Giuseppe Conte, esigenti, incalzanti, e incazzati, a rappresentare – per alcune ore almeno – il cuore duro e vero della vita pubblica nazionale.

È come il ritorno del Vascello fantasma, nell’opera wagneriana l’Olandese Volante, che nel suo perpetuo errare alla ricerca di un porto sicuro, appare all’improvviso quando è tempo cattivo.

In realtà, la classe operaia non è mai scomparsa. Siamo noi che non l’abbiamo più osservata né ascoltata. Certo, il peso del lavoro salariato è andato via via riducendosi dagli anni ’70 a oggi e, nell’ultimo decennio, la percentuale di addetti all’industria è passata dal 29, 8% della popolazione attiva all’attuale 22,6%. E, tuttavia, oggi gli operai in Italia sono 3 milioni 950.000 e quelli delle costruzioni 1 milione 300.000. Ancora tanti. E tornano a essere visibili perché i segnali di crisi fanno emergere sia gli enormi rischi di ulteriore restringimento della base produttiva e, dunque, gli effetti nefasti sull’occupazione, sia le profonde conseguenze sull’intera vita economica e sociale.

Basti pensare ad alcuni dei punti di crisi che si manifestano più vividamente e dolorosamente: Ilva (acciaio), Alcoa (alluminio), Whirlpool (la cosiddetta filiera del bianco). E, così, quella scomparsa si rivela, al contrario, come una presenza sotterranea, sofferente e irriducibile. Certo, i tempi sono radicalmente cambiati da quando nel 1966 il filosofo Mario Tronti definiva “rude razza pagana” la classe operaia, interessata non a utopie salvifiche, ma a più salario e più potere.

Appena qualche tempo dopo la pubblicazione del testo trontiano (Operai e Capitale, Einaudi), in Cina Yao Wenyuan in un articolo su Bandiera Rossa, organo del partito comunista cinese, – attribuito a Mao Zedong durante la Grande rivoluzione culturale proletaria – formulava la parola d’ordine “la classe operaia deve dirigere tutto”: a indicare la funzione di egemonia che il proletariato di fabbrica avrebbe dovuto svolgere in tutti i campi della società. In particolare in quello delle idee, in un Paese dove la maggior parte della popolazione lavorava nell’agricoltura e viveva nelle campagne. Uno slogan e un’ideologia che attraversa nelle forme più diverse l’Occidente e il 900, laddove ogni progetto di trasformazione era legato allo sviluppo di una classe operaia compatta e consapevole: da Antonio Gramsci a, Rosa Luxemburg da Raniero Panzieri a Giuliano Amato.

Attualmente in Cina, la classe operaia, secondo la sociologa Pun Ngai, è composta da oltre 500 milioni di lavoratori urbani e di contadini-operai. E quella stessa parola d’ordine “la classe operaia deve dirigere tutto” è richiamata nelle direttive del Partito comunista cinese, come retorica di un Capitalismo di Stato retto da un regime dispotico.

In Italia di ciò restano solo i fotogrammi di qualche corteo del primo Maggio del 1969, a Milano e a Catania. Dopo mezzo secolo il lavoro salariato è politicamente infelice e non rappresentato, ed è persino difficile trovarne traccia se non quando, come ora, diventa emergenza sociale. Della classe operaia, hanno parlato in questi decenni, qualche sindacato e, in particolare, due leader “operaisti”, pur su posizioni molto distanti, come Maurizio Landini e Marco Bentivogli; i rappresentanti intelligenti dei datori di lavoro, come il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi; il sociologo Luciano Gallino, autore di articoli formidabili su questo giornale, e una leva di narratori.

Penso a Fumo sulla città di Alessandro Leogrande sull’Ilva, ad Acciaio di Silvia Avallone sulla crisi della siderurgia a Piombino, a Giorgio Falco e ai suoi testi sul lavoro-non lavoro, e a quelli di Andrea Bajani, a La dismissione di Ermanno Rea sulla zona industriale di Bagnoli, e, ancor prima, a Mammut di Antonio Pennacchi, che aprì una nuova stagione dopo quella di Luciano Bianciardi, Ottiero Ottieri e Paolo Volponi.

Oggi, questa classe operaia rischia di essere vista solo come un susseguirsi di vittime nel bollettino di guerra delle crisi industriali, e di sintomi nel referto clinico di un’agonia occupazionale. Tutto ciò in una fase e in un clima che hanno visto il discredito e, persino, il disprezzo del lavoro manuale e l’esaltazione acritica di quello immateriale.

Si è dimenticato, cioè, che nessuna economia avanzata può fare a meno di quell’attività eseguita a mano e con macchina, che consente di trasformare una materia prima in un oggetto di consumo.

È stata questa funzione essenziale, svolta dalla classe operaia nel corso di due secoli, che ha fatto di essa il motore centrale della nostra organizzazione sociale. Ridimensionata e sconfitta, com’è oggi, modificata nella sua composizione, anche dai flussi migratori esterni, torna prepotentemente sulla scena pubblica, non più come soggetto di lotta di classe, bensì come grande e irrisolta questione nazionale. E trova una nuova attenzione, non solo come segnale di una crisi che sembra irreversibile, ma anche come rimorso per una politica e per una cultura, specie di sinistra, che hanno creduto di poterla ignorare e rimuovere, o di ridurla a un oggetto di modernariato.

Per poi scoprire che di quella classe avevano un dannato bisogno. Così come avevano bisogno dei suoi voti, persi non, come qualcuno crede, all’arrivo del Movimento 5 stelle, ma già a partire dalla seconda metà degli anni ’80. E hanno bisogno soprattutto, ieri come ora, della sua presenza sociale, in un paesaggio dove a dominare è sempre più la frammentazione: la polverizzazione, cioè, del senso del lavoro e delle vite umane.

Sorgente: Ilva, sorpresa, gli operai esistono | Rep

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