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Il gabinetto di guerra del Pd. Parte l'ultimatum di Zingaretti

Il segretario dei dem non vuole più pagare per gli alleati: la misura è colma. Anche Delrio tra i falchi: «Con queste continue fibrillazioni di Renzi e Di Maio, fermi non possiamo rimanere»

di Tommaso Labate

«Parliamoci chiaro. Questo governo doveva rappresentare l’inizio della crisi del salvinismo. E invece, due mesi dopo la nascita del governo Conte, Salvini a piazza San Giovanni è riuscito a ricompattare la destra ed è più forte di prima. Mentre noi stiamo qui a farci rosolare ogni giorno da Di Maio e Renzi, che sia sulla manovra o sull’Ilva. La misura comincia a essere colma…». Ecco, quando Nicola Zingaretti mette in chiaro che dal suo punto di vista l’operazione del governo giallorosso inizia ad avere un saldo negativo — e le parola «elezioni» inizia a sentirsi nell’aria senza che nessuno l’abbia ancora pronunciata — quella che doveva essere una riunione destinata a fare il punto sull’Ilva prende una piega diversa. E si trasforma in una specie di gabinetto di guerra, come quelle riunioni agostane in cui si stava in equilibrio sopra la follia nell’attesa di veder nascere la maggioranza giallorossa o di assistere al suo definitivo naufragio.

La linea e le sfumature

Siamo a metà mattinata, negli uffici del gruppo parlamentare del Pd a Montecitorio. Attorno a un tavolo ci sono il leader, il vicesegretario Andrea Orlando, il capodelegazione del Pd al governo Dario Franceschini e i ministri, oltre ai capigruppo. Basta mezzo giro di interventi per capire che, nonostante si sia tutti compatti su una linea, le sfumature ci sono, e non sono poche. Questione di sensibilità, di accenti diversi, di toni. Dario Franceschini e Lorenzo Guerini provano a fermare la giostra, mettendo sul piatto gli effetti collaterali della fine anticipata del governo Conte. «Nessuno vuole la fine del governo. Però è certo che, con queste continue fibrillazioni di Renzi e Di Maio, fermi non possiamo rimanere», è la replica di Graziano Delrio, che inaspettatamente veste la maschera del «falco».

Masticare amaro

Perché non è tanto, o non solo, questione di pretenderle, le elezioni anticipate. In fondo, il vero dramma del Pd è il salto nel vuoto, quel «muoia Sansone con tutti i Filistei», dove i Filistei sono ovviamente il capo politico del M5S e il leader di Italia viva. «Alle elezioni uno può decidere di andarci o di non andarci, e non è certo la strada che vogliamo percorrere noi», argomenta Orlando. Che però aggiunge: «Nessuno di noi può trascurare che alle elezioni, di questo passo, rischiamo di finirci comunque. E non camminando. Ma rotolando…». Zingaretti mastica amaro. Era il tifoso più tiepido dell’operazione Conte, per non dire dell’iniziale contrarietà a varare una maggioranza coi Cinquestelle; e si trova, due mesi dopo, a vestire «i panni del pompiere che deve spegnere tutti i giorni gli incendi che non ha appiccato lui», dicono i suoi, in compagnia di un premier che nel Pd viene ritenuto «l’unico incolpevole» delle cose che non vanno.

Ingranare la retromarcia

La riunione finisce con un qualcosa di più della generica messa a verbale che la situazione, per il Pd, non è più sostenibile. Zingaretti, nel corso della giornata, userà tutte le sue uscite pubbliche per togliere dal mazzo la carta delle elezioni anticipate. Ma quella carta, nel mazzo, c’è ancora. Basta un incidente nella discussione parlamentare sulla legge di bilancio o che naufraghi per davvero l’alleanza in Emilia-Romagna coi M5S e il Pd potrebbe davvero cominciare a ingranare la retromarcia. In fondo, basterebbe la certificazione della fine, l’approvazione della finanziaria e un accordo sulla legge elettorale per ritrovarsi, a marzo del 2020, alle elezioni anticipate. A due anni esatti da quelle che hanno dato vita a questo Parlamento.

Sorgente: corriere.it

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