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Gli istituti di credito sono pieni di sofferenze e il dieselgate zavorra l’industria. L’attivo del bilancio statale peggiora la congiuntura, ma nessuno osa toccarlo

Mario Deaglio

Il nuovo aeroporto di Berlino proprio non sembra tedesco. Assomiglia a uno dei quei tanti progetti infrastrutturali italiani che non si realizzano mai, un misto di ritardi (un decennio), errori di progettazioni, scandali, rivalità regionali. I ritardi, del resto, non riguardano solo quest’opera pubblica ma anche le ferrovie, dove i treni a lunga percorrenza sono noti per la scarsa puntualità; e l’Alitalia non è la sola linea aerea a collezionare risultati negativi, la Lufthansa ha fatto registrare nella prima metà del 2019 una perdita di 116 milioni di euro contro un utile di 713 milioni nello stesso periodo dell’anno scorso. 

L’elenco potrebbe continuare e l’immissione di liquidità decisa ieri dalla Bce non è fatta per salvare l’Italia; è fatta invece per salvare la Germania e con essa l’intero sistema economico europeo di cui la Germania rappresenta il centro tecnologico e operativo al quale l’Italia è fortemente agganciata. Una volta tanto i cattivi non siamo noi e non è un caso che negli ultimi mesi, mentre sull’Italia piovevano i rimproveri (largamente giustificati) della Francia e dei paesi nordici, i tedeschi stavano quasi sempre zitti.

Che cos’è dunque che non funziona in Germania, il paese della tranquillità sociale legata all’avanguardia tecnologica? I punti dolenti dell’economia reale sono almeno cinque.

Al primo posto occorre mettere le banche. Quando, negli Anni Novanta, la globalizzazione portò all’apertura del grande mercato finanziario mondiale, il sistema bancario tedesco si trovò con moltissimi soldi e poca esperienza. E quei soldi spesso li investì male, caricandosi dei famosi titoli americani “subprime” che persero gran parte del loro valore e che ancora adesso turbano i sonni di molti banchieri tedeschi.

L’elenco continua con l’industria dell’auto, i cui primati fanno (facevano) invidia a tutti, specie per quanto riguarda i motori diesel, prodotti in varianti sempre più efficienti e meno inquinanti. Purtroppo, alcuni dei test dell’inquinamento risultarono truccati con un apposito software, con la nota sequenza di indagini e multe astronomiche soprattutto negli Stati Uniti. Puntando sul diesel, i tedeschi avevano posto in seconda linea i motori elettrici e ibridi, per cui si sono trovati in difficoltà sui mercati mondiali. I risultati della rincorsa cominceranno a tradursi in vendite solo tra uno-due anni.

Al terzo punto compare quello che può essere considerato un autentico, grave infortunio industriale: la tedesca Bayer, colosso mondiale della chimica, nel 2016 acquistò l’americana Monsanto per la bellezza di circa 60 miliardi di euro. Circa due anni più tardi, un tribunale americano accertò che un prodotto della Monsanto era cancerogeno, aprendo la strada alla prospettiva di miliardi di dollari di danni da pagare. L’episodio sembra ormai superato, il carico sui bilanci – e sugli investimenti del gruppo – probabilmente non ancora.

Da queste storie bancarie e industriali passiamo ai grandi flussi commerciali della globalizzazione. La crescita tedesca è stata realizzata per la generale eccellenza (al di là dei pur importanti e clamorosi casi sopra illustrati) dei prodotti riconosciuta in tutto il mondo. Ed è stata la guerra dei dazi, iniziata dal presidente Trump, a rallentare, sia pure indirettamente, la corsa tedesca e poi ora a mandarla in negativo: la Cina vende meno agli Stati Uniti, il suo principale mercato, e imprese e famiglie cinesi hanno meno soldi per acquistare i prodotti europei, il che potrebbe mettere a rischio redditi e posti di lavoro non solo tedeschi ma anche, tra l’altro, italiani in quanto moltissime imprese italiane sono fornitrici apprezzate dell’industria tedesca.

E così arriviamo all’ultimo punto dolente, che agli italiani sembra impossibile: in Germania il deficit/Pil non esiste. Il che significa che lo stato tedesco, forse l’unico nell’Unione europea, oltre ai Paesi Bassi spende (da diversi anni) meno di quanto incassa. In un certo senso, quest’anomalia dà ragione a quanti considerano che la Germania andrebbe punita, così come vengono sanzionati i paesi che accumulano troppo deficit, visto che l’obiettivo generale è l’equilibrio dei conti pubblici.

Come si spiega questo comportamento virtuoso, di una ben strana virtù che impedisce all’economia tedesca di esercitare una vera funzione di leader in Europa, pur avendone tutti i requisiti economici? Le radici profonde si trovano naturalmente nella storia tedesca, nell’inflazione degli Anni Venti del secolo scorso che distrusse i patrimoni delle famiglie, e più profondamente nella stessa lingua tedesca che usa lo stesso vocabolo (“Schuld”) per indicare sia il debito sia la colpa. Per molti tedeschi avere un debito è come essere in colpa e fare deficit significa naturalmente aumentare il debito.

Ecco allora arrivare, proprio ieri, l’ultimo colpo del “bazooka” di Mario Draghi – anche se c’è motivo di crede che Christine Lagarde, che gli succederà tra poche settimane, sia d’accordo – che crea le premesse per l’immissione di nuovo denaro nel circuito europeo e permetterà a paesi come la Germania di indebitarsi a tasso zero, o forse a livello inferiore a zero, restituendo di meno di quanto prendono a prestito. Forse anche il nuovo aeroporto di Berlino sarà presto finito. In ogni caso viene regalato anche all’Italia un forte sconto sugli interessi da pagare. Con la speranza che queste complesse decisioni contribuiscano davvero a far nascere una nuova Europa.

Sorgente: Germania in panne, banche e auto adesso sono un peso – La Stampa

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