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Marcello Sorgi

È una vittoria stentata, risicata, ma importante, quella di Ursula Von der Leyen, la (ex) ministra tedesca eletta con soli 9 voti di maggioranza (383 su 374), una sessantina di franchi tiratori e l’appoggio determinante di 5 Stelle, Orban e Kaczinsky a presidente della Commissione europea dall’Europarlamento di Strasburgo. Spinta da molti a rinviare un passaggio a rischio, in cui la maggioranza europeista di popolari, socialisti, liberali e verdi si era spaccata, con metà dei socialisti che non avevano accettato l’estromissione di Timmermans e i verdi schierati per il «no», Vdl, com’è stata già soprannominata, ha scelto di rischiare e ha vinto, battendo l’ala estrema del fronte sovranista, in prima fila Salvini e la Lega, Le Pen e Afd, il partito di estrema destra della Germania.

Nove voti dunque hanno fatto la differenza, chiusa – per il momento – la lunga partita cominciata anche prima del voto europeo del 26 maggio, e stabilito il confine, per la verità assai incerto, di un Parlamento che ha dovuto fare i conti con un agguerrito fronte antieuropeista, aiutato nel voto per la nuova presidente della Commissione da un’inattesa alleanza di fatto con gli europeisti socialisti e verdi. I quali non si sono fatti convincere dal seducente discorso della von der Leyen, con promesse sul salario minimo, sul clima, sulla web tax, sul rilancio della flessibilità, sull’immigrazione e la revisione del trattato di Berlino, sul rinvio della Brexit e sulla parità di genere nella prossima Commissione. La sensazione è che molti – soprattutto i socialisti tedeschi e i leghisti italiani – abbiano votato con l’occhio alle scadenze interne (le elezioni locali in Germania, il possibile voto anticipato in Italia), che non al più decisivo destino del Vecchio Continente. In questo senso, per quanto fragile, la situazione è recuperabile, e VdI ha mostrato nel suo discorso la capacità e una vecchia sapienza democristiana che le consentiranno di provarci. Seppure il sostegno di Orban e Kaczinsky veni di qualche striatura sovranista la sua elezione, il gioco dei due forni, cominciato con le aperture del candidato sconfitto Weber a Salvini, s’è chiuso, sebbene per un soffio, all’interno del campo quasi solo nel forno europeista.

Quanto all’Italia, non è esagerato dire che esce con le ossa rotte da questa provvisoria conclusione della vicenda. Il governo è spaccato: i 5 Stelle hanno votato a favore della presidente e i leghisti contro, seppure dopo aver annunciato ieri, anche dopo l’annullamento dell’incontro con la candidata, che avrebbero fatto il contrario anche a dispetto del rifiuto manifestato nei loro confronti da Vdl. Salvini stavolta ha sbagliato i conti: quando ha capito che la presidente poteva contare, sulla carta, su 444 voti, non se l’è sentita di scommettere sui franchi tiratori per cercare di essere determinante, come ha fatto Di Maio, e ha scelto la sua abituale compagnia di Le Pen e degli altri estremisti di destra all’opposizione. È evidente che questo non faciliterà la scelta del nuovo commissario italiano, la cui designazione, fino a prima delle ultime polemiche sul caso Lega-Russia e sulla convocazione dei sindacati al Viminale, il premier Conte aveva attribuito al Carroccio. E non nel senso che l’Italia rischi di non avere il commissario che le tocca di diritto: ma che la scelta del nome (finora s’è parlato del sottosegretario Giorgetti) diventa più delicata perché, dopo quanto è avvenuto ieri e con gli schieramenti che si sono manifestati, cresce il rischio di vederselo bocciato a Strasburgo, come accadde nel 2004 per Buttiglione.

Infine c’è un’annotazione che ieri sera a Roma correva di bocca in bocca nei corridoi di Montecitorio: dopo il recente voto in tandem contro il doppio incarico del presidente della Rai, e dopo le comuni prese di posizione a favore della commissione parlamentare d’inchiesta sui finanziamenti occulti ai partiti (leggi: Lega-Russia) e della chiamata di Salvini in Parlamento per spiegare le implicazioni della trattativa moscovita su petrolio e soldi per il suo partito, rivedere insieme Pd e 5 Stelle in appoggio a Vdl qualche idea per il futuro la fa venire. Non siamo al ridicolo «asse Merkel-Renzi-Di Maio» paventato dal Capitano, ma ce n’è abbastanza, in un Paese come il nostro, per pensare o temere che se son rose fioriranno. 

Sorgente: Il governo italiano ne esce frantumato – La Stampa

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