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Luigi La Spina

Un buon consiglio, quando viene seguito a metà, può diventare un pessimo consiglio. È il caso del famoso motto di un grande liberale, Luigi Einaudi, che raccomandava: «Conoscere, per deliberare». L’uso, da parte dei nostri politici, della seconda parte della massima, senza riguardo per la prima, è ormai così usuale che non occorre citare esempi. Ma anche fare il contrario, può produrre conseguenze molto negative. È il caso, appunto, del parere del Comitato nazionale di bioetica che, in un pensoso documento, invita autorità istituzionali, giuristi, operatori sanitari e pure comuni cittadini, alla «riflessione» sull’aiuto al suicidio, ovviamente «nel rispetto di tutte le opinioni» e si spinge coraggiosamente perfino a riconoscere che, tra «eutanasia e assistenza al suicidio», ci sia differenza. Peccato che, dopo molte raccomandazioni assolutamente condivisibili, in pieno stile lapalissiano, la Commissione non esprima né un «sì» né un «no» a un intervento che, secondo l’articolo 508, redatto nel 1930, in era fascista, equivale all’istigazione al suicidio.

Arrivati a questo punto, sulla base di consigli, raccomandazioni, riflessioni, pure ultimatum, peraltro del tutto ignorati, della Corte costituzionale, sarebbe ora che il Parlamento nazionale si prendesse la responsabilità di decidere su una questione, ardua certo, divisiva anche, ma che non può più essere lasciata nel limbo di un assurdo vuoto legislativo.

Imbarazzi e ipocrisie, conflitti di competenze, convenienze elettorali, ignorano tragedie quotidiane che, in giornate di straziante dolore, costringono pazienti e famiglie o a scappare all’estero per trovare soluzione a condizioni di vita ormai inaccettabili, o a cercar di aggirare le leggi, con la complicità sottintesa di tanti medici e infermieri che fanno del buon senso la loro intima regola professionale.

Uno Stato degno di questo nome non può abdicare, senza neanche ammetterlo, rispetto alla responsabilità di rispettare i diritti più profondi dei cittadini, quelli della libertà di giudizio sulle loro condizioni di vita, se siano ancora compatibili con quello che questa parola significa. Non può mascherarsi vilmente dietro pareri, dispute, ammonimenti di questa o di quell’altra commissione, non può trascurare i perentori inviti a decidere della Corte costituzionale. Soprattutto, non può chiudere occhi e orecchie davanti allo strazio di tanti suoi cittadini, di tante sue famiglie che aspettano da troppo tempo un segnale di comprensione umana e di rispetto per un diritto insopprimibile, quello di decidere di se stessi.

Uno Stato che si dice, non sempre a ragione purtroppo, liberale, non può, attraverso leggi promulgate sotto regimi autoritari, pretendere di essere “padrone” delle vite dei cittadini. Senza considerare, tra l’altro, che le risorse della medicina moderna sono in grado di fornire a pazienti e familiari non solo tutte le cure per alleviare le sofferenze dei malati, ma di informarli di quando l’esistenza non si distingua più dalla morte, di quando l’accanimento terapeutico sia un troppo facile alibi al dovere di assumersi la responsabilità morale di decidere e di prendere atto che quel confine è stato superato.

Come è stato per il divorzio, come è stato per l’aborto, sia pure attraverso conflitti decennali, comprensibili crisi di coscienza, rispettabili remore religiose e morali, alla fine lo Stato è riuscito a non sottrarsi al compito non di imporre condotte che l’individuo non si senta di accettare, ma al dovere di lasciare libertà di coscienza rispetto a scelte difficili, amare, drammatiche, ma che non possono essere sequestrate al cittadino, in nome di una “morale di Stato” che è la pudica e ipocrita maschera verbale di quello “Stato etico” che vorremmo seppellito nella tragica storia del secolo scorso.

Sorgente: Fine vita, una politica incapace di decidere – La Stampa

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