Thank you all for the incredible honour you have done me. The time for campaigning is over and the time for work begins to unite our country and party, deliver Brexit and defeat Corbyn. I will work flat out to repay your confidence
L’ex sindaco di Londra e leader della campagna per l’uscita del Regno Unito dall’Ue è riuscito a prendersi le chiavi del numero 10 di Downing Street grazie a un’attenta opera di costruzione della propria immagine pubblica, tra gaffes, dichiarazioni controverse e un carattere ferocemente ambizioso e competitivo.
Ha stravinto secondo pronostico la sfida col suo successore al Foreign Office, il 52enne Jeremy Hunt, ottenendo oltre 90.000 voti contro gli oltre 40.000 nel ballottaggio affidato ai 160.000 iscritti del partito conservatore. Tra i primi a congratularsi con il vincitore c’è il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. “Congratulazioni a Boris Johnson per essere divenuto il nuovo premier del Regno Unito. Sarà fantastico!”, ha twittato il presidente americano, legato a Johnson da una special relationship fatta di somiglianze e parallelismi.
Congratulations to Boris Johnson on becoming the new Prime Minister of the United Kingdom. He will be great!
Buon lavoro a #BorisJohnson.
Il fatto che da sinistra lo dipingano “più pericoloso della Lega” me lo rende ancor più simpatico@BorisJohnson
Il nuovo leader assumerà da domani anche la guida del governo, dopo che Theresa May avrà formalizzato le sue dimissioni da premier nelle mani della regina. La convocazione a Buckingham Palace per ricevere dalla stessa sovrana l’incarico di formare una nuova compagine è prevista nel pomeriggio di domani e a seguire Johnson entrerà a Downing Street. Secondo il sistema britannico, non è previsto un voto di fiducia, salvo che a chiederlo sia il leader dell’opposizione, in questo momento il laburista Jeremy Corbyn. Scenario rinviato presumibilmente a dopo la pausa estiva del Parlamento, visto che Westminster chiuderà i battenti giovedì 25 per riaprirli il 3 settembre.
Tre le figure che più hanno dominato la scena pubblica britannica negli ultimi decenni, Alexander Boris de Pfeffel Johnson, per tutti “Boris”, nasce a New York il 19 giugno 1964. Figlio di genitori inglesi (al tempo il padre Stanley Johnson era studente alla Columbia University), Boris ottiene dunque fin dalla nascita la doppia cittadinanza inglese e americana, in base allo ius soli in vigore negli USA.
L’infanzia di Boris – ricorda l’Ispi in una pagina dedicata al suo profilo – è divisa tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti (in cui il padre lavora per alcuni anni alla Banca mondiale) e Bruxelles, dove la famiglia si stabilisce quando Stanley diventa funzionario della Commissione europea. Boris studia prima a Eton, uno dei più prestigiosi college inglesi, e successivamente all’università di Oxford.
L’Istituto per gli studi di politica internazionale riassume così le tappe della sua ascesa ai vertici della politica:
Dopo la laurea, Johnson inizia una carriera giornalistica che lo porterà in breve tempo a diventare una delle voci più riconoscibili nel dibattito pubblico dello UK. Il primo impiego è come tirocinante al The Times, da cui però viene licenziato con l’accusa di avere inventato una dichiarazione riportata in un suo articolo. Boris passa quindi al Daily Telegraph, per il quale è corrispondente da Bruxelles dal 1989 al 1994, diventando uno dei primi giornalisti “euroscettici”. Negli anni in cui Jacques Delors è presidente della Commissione europea, Johnson è una delle voci più critiche verso la nascente Unione europea: se da un lato si attira accuse di giornalismo inaccurato, dall’altro è una voce influente e divisiva nel dibattito politico britannico, i cui articoli contribuiscono ad approfondire le divisioni tra l’ala filoeuropea e quella euroscettica del Partito conservatore.
Nel 2001 Johnson viene eletto al parlamento inglese tra le fila dei conservatori. A Westminster, Boris è una voce fuori dal coro nello schieramento dei Tories: come già emerso durante i suoi anni da giornalista, e al netto di prese di posizione a tratti incoerenti e dichiarazioni scandalose, Johnson si trova infatti spesso su posizioni più “liberal” rispetto al suo partito su temi quali immigrazione e diritti civili. Rimane deputato alla Camera dei Comuni fino al 2008 quando, per la sorpresa di molti (anche tra i conservatori), Johnson viene eletto sindaco di Londra. Da primo cittadino, Johnson rimane sostanzialmente nel solco tracciato dal suo predecessore, il laburista Ken Livingstone; introduce comunque alcune novità, come il sistema di bike sharing cittadino e un salario minimo più alto. Viene rieletto per un secondo mandato nel 2012, nell’anno in cui la capitale britannica ospita le olimpiadi. Al temine del suo incarico, nel 2016, il 52% dei londinesi è soddisfatta di Jonhson e ritiene che abbia fatto “un buon lavoro”.
Rientrato in parlamento con le elezioni del 2015, Johnson diventa una delle figure più importanti a favore del “Leave” nella campagna elettorale per il referendum su Brexit. Con la vittoria del suo schieramento, Johnson viene nominato Foreign Secretary (Ministro degli esteri) nel governo di Theresa May. La rottura con la premier May arriva però nel luglio 2018, quando Johnson si dimette da ministro per protesta contro il “Chequers agreement”, un documento elaborato dal governo britannico che detta la linea per i negoziati su Brexit, e in opposizione all’atteggiamento tenuto dalla premier nei confronti dell’Unione europea. Da quel momento inizia il conto alla rovescia verso una decisione che in molti attendevano da anni ma che mai si era concretizzata: la candidatura di Johnson alla guida del Partito conservatore. A maggio 2019 alla vigilia delle dimissioni di May, Johnson ufficializza la sua corsa alla leadership dei Tories. In un dibattito sempre più polarizzato tra “Brexiteers” e filoeuropei, Johnson scavalca tutti gli altri contendenti promettendo di tenere aperta l’opzione di una uscita senza accordo del Regno Unito dall’UE e rifiutando l’accordo sul “backstop” irlandese.
Ma la Brexit non è “l’unica” grande sfida con cui Boris dovrà vedersela a partire da domani. Ad accoglierlo c’è una crisi internazionale tutt’altro che semplice: quella che si è accesa con l’Iran dopo il sequestro della petroliera ‘Stena Impero’ battente bandiera britannica, sequestrata venerdì dai Guardiani della rivoluzione dell’Iran nello Stretto di Hormuz come rappresaglia per lo stop imposto a Gibilterra alla petroliera iraniana Grace 1. Non solo: il timore dell’intelligence britannica – secondo quanto rivela il Telegraph – è che l’Iran abbia organizzato e finanziato cellule terroristiche legate a Hezbollah dormienti in tutta Europa, incluso il Regno Unito, con il compito di sferrare attacchi in risposta a un conflitto nel Golfo. Uno scenario da incubo con cui il nuovo premier dovrà fare i conti, in un clima sempre più incandescente.
Suona dunque come un monito il tweet con cui il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif gli ha dato il benvenuto (uno dei primi insieme a Trump a commentare il risultato). “Il sequestro del petrolio iraniano da parte del governo May su comando degli Stati Uniti è pirateria, pura e semplice. Mi congratulo con il mio ex omologo Boris Johnson che diventa il nuovo premier del Regno Unito. L’Iran non cerca lo scontro. Ma abbiamo 1.500 miglia di costa del Golfo Persico. Queste sono le nostre acque e le proteggeremo”. Anche su questo il lavoro di Johnson inizia oggi. E non sarà semplice.
The May govt’s seizure of Iranian oil at behest of US is piracy, pure & simple.
I congratulate my former counterpart, @BorisJohnson on becoming UK PM.
Iran does not seek confrontation. But we have 1500 miles of Persian Gulf coastline.These are our waters & we will protect them