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Capita che ti trovi a pensare che nomi come Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Antonio Vullo dovrebbero essere familiari e custoditi nei nostri cuori se solo la nostra Italia fosse un Paese normale.

Capita di pensarlo questo mentre assisti al film di Marco Bellocchio “Il traditore” e ti ritrovi nella scena con l’asfalto di Capaci che ti salta davanti come se dentro quella macchina, al posto di guida dove era Giovanni Falcone, ci fossi tu.
Capita perché Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello sono i nomi dei tre sopravvissuti a quella strage e l’altro, Antonio Vullo lo è di Via D’Amelio.

Così accade che questo sia il film che scorre nella tua mente parallelo a “Il traditore” mentre questo passa sullo schermo del cinema; sei seduta e la stretta allo stomaco di dolore e sgomento che hai, insieme alla certezza di star vedendo qualcosa di straordinario, aumenta a ogni immagine.

Trovandoti a  pensare a quelli che hanno avuto la sfortuna di essere sopravvissuti a tanto orrore e a come stiano cercando, ancora oggi, di riuscire a superarla.

A questo strano loro essere una sorta di fantasmi da ascoltare e ricordare solo a tratti. Se capita e, ovviamente, ci sia chi ha voglia e interesse di ascoltarli.

Sì perché sempre di più è attuale la frase di Giovanni Falcone nell’intervista ad Augias per cui:

“In questo Paese per essere credibili bisogna essere ammazzati”.

Paese in cui si minaccia di togliere scorte come fossero un regalo o un privilegio per chi ci deve convivere oppure non si ascolta o si dimentica chi c’era e ha visto, magari troppo, probabilmente.

Scorrono le immagini de “Il traditore”, guardi lo schermo e, quindi, pensi alle vittime ma anche ai sopravvissuti, ai familiari, a chi ancora è qui, a chi ancora lotta e fa il suo dovere.

Pensi all’amico Angelo, per esempio, Angelo Corbo. Al suo sorriso pacato, al suo racconto in quella scuola dove eri con lui mentre descriveva lo sguardo di Falcone che cercava aiuto mentre lui, con altri, provava in ogni modo a estrarlo dalla macchina.

Pensi ai ragazzi di quella scuola, per ore attenti, commossi per il regalo di questa straordinaria testimonianza. Pensi al suo silenzio per tantissimi anni, a quel suo quasi scusarsi per essere rimasto in vita, a quel suo senso di triste consapevolezza per la dimenticanza del suo Paese (almeno di certo Stato) verso chi è sopravvissuto e al fatto che avverti che si sente tradito anche lui.

Scorre “Il traditore” sulla scena e arrivano gli spezzoni notissimi, ma stavolta infilati per noi come lame nello schermo e nel nostro cuore, di Rosaria Schifani sull’altare.

Scorrono esattamente come, dentro di me continua a scorrere parallelo l’altro film, quello della vita quotidiana, degli incontri e dei ricordi personali di quel periodo.
Sempre più convinta che questo fosse quello a cui Bellocchio voleva tutti farci arrivare. Dove eravamo, che abbiamo fatto, cosa oggi facciamo per rendere degna memoria a tutto questo orrore.

Penso a Emanuele Schifani che nel momento in cui mamma Rosaria ricordava al mondo che anche certi “traditori” erano lì, fra quelli seduti in chiesa in prima fila ad ascoltare, in quel momento era a casa e aveva quattro mesi.

Emanuele che oggi ha una divisa e serve proprio quello Stato che in qualche modo tradì sia Giovanni Falcone che suo padre e chi morì con lui.

E questa cosa, del vestire comunque con amore e impegno una divisa o entrare “nello Stato” come tanti “figli” di vittime hanno fatto e fanno fa pensare, sempre. Con ammirazione e stupore.

Cosi come risuona nel film il ricordo dell’omicidio di Boris Giuliano e il pensiero contemporaneamente va a suo figlio, appena nominato Questore di Napoli.

Allora ti chiedi quanti sono i “traditori”e i traditi. Quali e quanti, oltre quelli che la storia ha decretato. Quale lo Stato che, oggi, si merita persone cosi “nonostante tutto”. Gente che continua a tenere alti impegno, memoria e difesa dei nostri valori più alti.

Nonostante tutto e nonostante tanto, di fatto ma, soprattutto, di non fatto.
Un regalo drammatico e straordinario questo di Bellocchio e di tutti i suoi interpreti, a cominciare dalla interpretazione straordinaria di Pierfrancesco Favino.

Un regalo alla Memoria di tutti noi, per chi c’era ma, soprattutto per chi allora magari non era neanche nato. Un regalo con cui riflettere che, insieme a “quel” traditore, ci siamo anche noi come traditi da uno Stato che ha trame e maglie spesso troppo larghe, con un tessuto che tiene solo perché c’è un filo di grazia e di bellezza fatto da uomini e donne che resistono nonostante tutto.

Che siano giornalisti che mettono la loro vita a repentaglio per dire quello che accade; uomini e donne che la vita avrebbe dovuto riempire di rabbia e risentimento per gli affetti tolti o i trattamenti subiti, compresa la dimenticanza, e invece continuano a servirlo e amarlo questo Stato o cittadini che si impegnano nel loro quotidiano e nelle loro funzioni perché qualcosa vada “meglio” o semplicemente come deve.

Esci dal cinema, cosi, con il dolore forte nello stomaco per quello che sapevi e ti si è materializzato davanti. Sapendo bene che le bottiglie di champagne stappate quel 23 maggio certamente non sono state le ultime e che qualcuno continua a stappare mentre altri però, fortunatamente, silenziosamente e con molto più coraggio continuano a fare il loro dovere. Diceva Giovanni Falcone:

“Perché una società vada bene… per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il proprio dovere”.

Ringraziamo Bellocchio, allora, per questo straordinario regalo perché ognuno deve fare quello che sa fare meglio affinché ogni giorno abbia un senso ricordare quanto accaduto il 23 maggio.

I traditori sono tanti e di vario tipo e, se è certo che tutti noi dobbiamo ricordarci di non tradire questo nostro Paese, dobbiamo anche vigilare e reclamare con forza di non essere da questo traditi.

Quest’anno, la mattina del 23 maggio, ho scritto a Emanuele, dicendogli che gli mandavo un abbraccio. Solo questo, senza tante parole, senza andare a celebrazioni o vedere passerelle inutili. Non credo servano più, salvo per la Memoria e il racconto a chi non sa e a chi non c’era. Ai ragazzi, ai giovani come oggi lui che, a ventisette anni, è già più grande di suo padre quando è stato ammazzato.

Dare senso e valore al 23 maggio che deve essere tutti i giorni. Compresa una sera come questa, in cui un regista, un grande regista con un cast straordinario, è riuscito a ricordarcelo

Sorgente: Marco Bellocchio è tutti noi in un Paese di traditi e traditori | L’HuffPost

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