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I vicepreier Di Maio e Salvini

Ricette gialloverdi. L’elenco dei beneficiari del salario minimo per Di Maio: dai cuochi agli autisti. Il paradosso: la «tassa piatta» potrebbe penalizzarli. L’analisi della Cgil sulle idee fiscali del governo gialloverde: «Una riforma ingiusta e regressiva, a vantaggio esclusivo dei redditi alti e non di quelli bassi»

Roberto Ciccarelli

Sospeso, per il momento, il teatrino sui «mini-bot» buono per scaldare i motori dello scontro per 72 ore, ieri al tavolo serale del vertice che ha avuto il compito di preparare un altro rilancio dell’azione di un governo sbandato è stato servito anche il menu flat tax-salario minimo. La combinazione di queste proposte è il frutto del risiko di ritorsioni reciproche tra gli alleati del contratto e va letto rispetto agli aut aut inviati dal presidente del Consiglio Conte soprattutto al dioscuro Salvini, per evitare la procedura di infrazione della Commissione Ue. L’obiettivo del fuoco di sbarramento è la «flat tax» da 30 miliardi di euro, negli ultimi giorni derubricata alla nozione più eufemistica di «taglio delle tasse». Salvini sostiene di averlo calcolato «centesimo per centesimo». Questo accadeva all’indomani delle europee, quando il leader leghista ha dettato le condizioni, provocando una levata di scudi del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, poi dello stesso Conte che ha rilanciato su una riforma «organica» del fisco (probabilmente il sistema delle detrazioni) nella quale dovrebbe essere inserita la single issue leghista.

PER COMPRENDERE la reale portata di questa misura classista, un totem liberista usato paradossalmente per sfondare la gabbia liberista in cui agonizza anche questo governo sono utili i calcoli realizzati ieri dalla Cgil. Si tratta di una «riforma ingiusta e regressiva, finanziata da condoni, spesa in deficit, una partita di giro sulle detrazioni, a vantaggio esclusivo dei redditi alti e non di quelli bassi che rischiano di non ricevere benefici».

SULLA BASE di quanto già annunciato da esponenti del governo le aliquote fiscali dovrebbero essere ridotte da cinque (23%, 27%, 38%, 41% e 43%) a tre: 15% la minima (fino a 50 o 60 mila euro) e 40% la massima (oltre i 100 mila euro). Sulla eventuale seconda aliquota non ci sono informazioni, ma potrebbe essere fissata al 25% o al 30% per realizzare l’ossimoro di una «tassa-piatta-progressiva». Così inteso il provvedimento potrebbe tagliare fino a quasi 19 mila euro di tasse a chi oggi possiede un reddito di 110 mila euro. In più comporterebbe un risparmio di 8.100 euro all’anno per i redditi di 50 mila euro. All’opposto produrrebbe un aggravio per chi conta su un reddito annuale lordo di 18 mila euro. Un lavoratore con reddito annuo lordo di questa entità, paga circa 1.870 euro di Irpef. Con la nuova aliquota, cui è stata aggiunta una deduzione di 4 mila euro come annunciato circa un anno fa, andrebbe a pagare 2.100 euro. Un lavoratore con reddito pari a 50 mila euro paga attualmente circa 15 mila euro di Irpef. Con la riforma ne pagherebbe 6.900, con un vantaggio di 8.100 euro. Un lavoratore con reddito pari a 110 mila euro paga attualmente 40.470 euro di Irpef. Con la riforma ne pagherebbe 21.500.

IN NOME DEL «POPOLO» si taglia la progressività fiscale e si garantiscono maggiori vantaggi ai redditi più alti. E questo, dice Salvini, nella speranza (infondata) che i ricchi tornino a spendere, le imprese a investire, creando il «lavoro» e sollevando il governo dallo «zero virgola» della crescita. Nella recente storia della favola fiscale sulla «tassa piatta» questo auspicio si è rivelato infondato. I regali fiscali incrementano la rendita, non ripristinano la giustizia sociale e, semmai, rendono ancora più violente le diseguaglianze. Questo è l’esito del populismo liberista, un capitolo della storia del socialismo per i ricchi e della libera impresa per i poveri.

I CINQUE STELLE hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Di Maio ha sfidato Salvini per avere in cambio il salario minimo orario. Provvedimento incommensurabile e, per il momento, di incerta applicazione la cui necessità è stata tuttavia riconosciuta ieri da Salvini. A condizione che gli alleati gli concedano il terreno su provvedimento di impatto superiore, politicamente più spendibili: il decreto sicurezza bis e, appunto, la «flat tax». È probabile che i Cinque Stelle auspichino che la diga dei conti eretta da Conte e Tria (e Mattarella) arresti gli slanci fiscali salviniani. L’impressione di una disparità tra il peso, e il rendimento, politico delle misure resta forte. Non fosse altro per i danni che potrebbe provocare la «flat tax». Lo scontro sarà duro, l’argine dovrà tenere.

QUANTO AL SALARIO MINIMO i Cinque Stelle hanno riscontrato l’opposizione dei sindacati confederali con i quali hanno intavolato un paio di incontri senza seguiti. Secondo l’Istat l’introduzione del salario minimo, anche con riferimento al contratto, avrebbe un impatto positivo per il 21% dei lavoratori dipendenti che avrebbero vantaggi in termini di retribuzione. «Parliamo di almeno 3 milioni di persone con una famiglia e dei figli – ha scritto Di Maio su Facebook – Camerieri, cuochi, pizzaioli, autisti, guardie notturne, centralinisti. Al lavoro devono andarci con il sorriso e con dignità». Se,e quando, entrerà in vigore la «flat tax» saranno proprio loro a pagare il prezzo più salato. Il sorriso, lo perderanno subito.

Sorgente: il manifesto del 11.06.2019 – il manifesto

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