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L’anniversario delle proteste e della repressione di 30 anni fa

di Ezio Mauro

Si chiamava in gergo “Glasnost One”, l’aereo sovietico che quella domenica sbarcò a Pechino il circo dei corrispondenti stranieri che lavoravano a Mosca, per seguire la visita di Gorbaciov con il disgelo tra l’Urss e la Cina. Con i giornalisti accreditati al Cremlino viaggiavano i portavoce del Segretario Generale e, affondati negli ultimi sedili laggiù in fondo, sei uomini del Kgb. Lo squadrone politico e propagandistico che faceva da pesce pilota ad ogni visita di Gorbaciov era già atterrato da due giorni, con tre ministri e otto professori pronti a farsi intervistare sorridenti in tivù, il Bolshoi che si annunciava nei manifesti in città, il teatro “Pennacchio Rosso” di Novosibirsk che presentava Cuore di cane di Bulgakov. Ma qualcosa danzava nell’aria come un lampo, o un rumore di fondo. Dalla morte del vecchio segretario del partito Hu Yaobang gli studenti di Pechino erano entrati in agitazione, usavano la sua figura come pretesto, inneggiavano a Gorbaciov e alla perestrojka e ieri sera, addirittura, avevano chiesto in assemblea al sindaco e al segretario cittadino del partito di mostrare i loro stipendi. Così, in attesa che il vertice di Stato cominciasse, qualcuno di noi andò a vedere cosa stava succedendo davvero in piazza Tienanmen.

Non lo sapevamo, ma era la cinquantesima ora di sciopero della fame in una piazza senza acqua e senza ombra. I sette capi del movimento, con gli ideogrammi neri sopra la fascia bianca attorno alla fronte, si passavano il megafono l’un l’altro per chiedere al governo di rispondere alle loro richieste. Ma attorno, mentre li ascoltavano parlare con la voce indebolita dalla febbre e li vedevano barcollare per lo stordimento del sole e della fame, i ragazzi piangevano di rabbia e delusione. «Il governo tace — diceva una studentessa — e noi vediamo i nostri compagni cadere come sacchi vuoti». «La nostra spine dorsale non si piegherà», assicurava un dazebao appeso alle aiuole, sotto le bandiere delle università cinesi che sventolavano eversive davanti al Palazzo del Popolo. Ribellione e commozione diventavano la cifra di un movimento che provava emozione per se stesso guardando le barelle correre alle sei del pomeriggio tra la folla per soccorrere gli svenimenti, nell’autocoscienza collettiva di un compito storico per gli studenti, quasi religioso, con la protesta pronta a trasformarsi in un moderno sacrificio politico davanti all’ostinazione del potere.

È una battaglia tipicamente orientale, che procede senza barricate e senza scontri, semplicemente mostrandosi e consumandosi in pubblico, come qualcosa di inevitabile, insieme modernissimo e antico. Oppressi dal silenzio del potere e storditi dall’attenzione mondiale radunata casualmente qui da un vertice di Stato, i ragazzi incrociano la tecnologia dell’informazione planetaria e la pedagogia calligrafica dei dazebao, così come accavallano la loro richiesta di trasparenza e di apertura con l’arrivo a Pechino dell’uomo della perestrojka e della glasnost. È nel nodo di queste coincidenze misteriose che il movimento supera quel punto segreto capace di trasformare una fiammata di ribellione in un fenomeno politico incontrollabile, che parla a tutto il Paese e consegna agli studenti il ruolo sproporzionato di classe improvvisamente generale, protagonista di una svolta. «Questa volta siete voi che ci state insegnando la lezione — si inchina adesso davanti ai sette ragazzi lo scrittore Yang Hi — e noi vi seguiremo».

Sulla piazza (con tre pullman trasformati in gabinetto) questo sentimento della missione inevitabile e terribile dà forma a una vita autosufficiente e separata, senza distinzioni tra la notte e il giorno. I ragazzi non urlano. Aspettano qualcosa, accoccolati sotto una distesa di ombrelli, seduti sulle giacche di cotone imbottite, mentre si passano l’un l’altro come in un rito i flaconi per la fleboclisi di acqua arricchita di sali minerali. Sembra l’accampamento di un popolo che si sta preparando per una grande migrazione, per una traversata politica dal passato della Cina al suo futuro. “Madre — dice il cartello appeso a un palo — guardami: io sciopero perché la verità è più importante del pane”. Striscioni chiedono aiuto ai medici e ai farmacisti. «Venite tutti, abbiamo bisogno di voi, muovetevi», dice al megafono la giovane Chai Ling. «Cosa state aspettando?». Si sparge la voce che Gorbaciov è stato fatto entrare nel Palazzo del Popolo dall’ingresso posteriore, per evitare ogni contatto con gli studenti. E quando la televisione trasmette il gigantismo del rito ufficiale, col segretario del Pcus in piedi in mezzo ai leader cinesi per ascoltare l’Internazionale, sulla piazza l’insegnante di musica alza le mani e guida i ragazzi a un’Internazionale mai sentita, a labbra chiuse.

Al quinto giorno dello sciopero della fame i ragazzi non si muovono più, schiacciati dal sole e dal torpore dell’autodistruzione. Ieri, quand’era già buio, il governo ha mandato un ministro, Yen Min Fu, a chiedere agli studenti di badare a se stessi, sospendendo la protesta. Gli ha risposto un grido notturno, dove si concentrava l’ossessione della piazza: “Shin”, acqua. I sette, infatti, hanno cominciato lo sciopero della sete. E questa sfida che non passa per la televisione e i giornali ma attraverso le famiglie, i confronti generazionali tra padri e figli, il tam tam nelle scuole, smuove il sentimento collettivo della città, che incomincia a sfilare in piazza Tienanmen in un omaggio alla protesta dei ragazzi che trascina con sé un’autocritica mai vista. A un certo punto sbucano in piazza i giornalisti del Quotidiano del popolo, dietro uno striscione gigantesco con le parole mai stampate sul giornale del partito: “Gli studenti stanno morendo, il governo è cieco”. Come per una parola d’ordine, un’ora dopo arrivano i redattori di Cina economica, seguiti da quelli del Giornale della gioventù cinese, finché nel pomeriggio si vede avanzare da lontano lo striscione incredibile della Nuova Cina, l’agenzia ufficiale del potere: “Noi pubblicheremo tutto, basta con il gioco delle ombre”. Ormai vengono tutti, impiegati dei ministeri, pittori, funzionari del governo, vecchi professori intimiditi con le teste rasate che avanzano tenendosi per mano, e nel buio serale sembra che ballino.

Lo sciopero è dilagato. Lunedì erano 2mila, martedì 3160, mercoledì più di 4mila, e i Capi hanno dovuto convincere otto anziani a desistere, perché volevano darsi fuoco. Trecento sono in ospedale, il dottor Ma Sui che fa il volontario qui in piazza allarga le braccia: «Io posso fare poco se i ragazzi vogliono morire». Il gruppo di studenti che rifiuta il cibo dal primo giorno, e adesso anche l’acqua, sta in una specie di recinto sacro dei Primi e dei Prescelti, impenetrabile, protetto da tre cordoni umani. Dentro, i corpi sembrano assopiti, poi si muovono in uno scatto, rotolano per un metro, fino a quando un altro corpo immobile li blocca. Adesso cento, duecento giovani imboccano a sorpresa la Strada della lunga pace, puntano verso il palazzo del Consiglio di Stato, sede del governo, e osano attraversare l’arco d’ingresso. Sette di loro vanno più avanti, finché arrivano di fronte ai soldati coi fucili, sotto gli ideogrammi d’oro “Servire il popolo”. Si siedono immobili, come se la protesta e il potere ora si guardassero negli occhi.

Pechino ormai sembra fuori controllo, e la protesta è diventata troppo grande per star dentro i megafoni giocattolo degli studenti, il popolo che i ragazzi hanno evocato afferra la guida, la politica prende il posto dell’emozione. Finisce la rivoluzione dei gelati e delle aranciate, comincia una battaglia che ha come posta il potere e come bersaglio il vecchio Deng Xiao Ping. “Deng — urlano i cartelli, bruciando in un attimo tutta la retorica sentimentale dei ragazzi — chiedi scusa e vai in pensione”. “Signor Deng, sei troppo vecchio», “Il tuo cuore è duro e la tua vista è corta”, “Mandiamo a casa la tua dittatura feudale”. Finché alle quattro del pomeriggio dozzine di persone salgono sul tetto del Museo di Storia della Rivoluzione e alzano la bestemmia di uno stendardo antico: “Vieni, spirito della Cina”. I palazzi del potere scalati, la città in piazza. E ora i primi pezzi ribelli del partito in corteo, la Scuola Quadri, la Lega dei Giovani Comunisti, persino il Dipartimento Organizzazione del Comitato centrale, in una sorta di delega sacrificale collettiva agli studenti. Ecco perché dappertutto i ragazzi alzano le due dita a “V” nel segno della vittoria, anche se spuntano i primi segnali preoccupanti, affiorano vecchi slogan della vedova di Mao (“Fra quattro mesi il potere sarà nostro”), torna il famigerato numero 9, che all’epoca della rivoluzione culturale contrassegnava l’intellettuale e il suo scalino sociale, giù al nono livello. I sette ragazzi del Consiglio di guerra si riuniscono passandosi la stessa sigaretta, seduti a terra, chiedono di isolare i provocatori, evitare violenze, non criticare la costituzione. Intorno a loro, crollano in 500, i medici dicono che è un suicidio. Chi si addormenta per terra in piazza, tiene un biglietto in mano: “Non voglio il medico, non voglio medicine, voglio che il governo risponda”.

È il momento in cui Mao Zedong ritorna all’improvviso, come un fantasma agitato contro Deng, e la sua immagine ondeggia alta sul corteo immenso che arriva in piazza, portato in processione al centro della trinità rivoluzionaria con Ciu Enlai e il generale Zhuda. Alle 4,25 del mattino, l’ora in cui Mao riceveva i suoi ospiti, il Segretario Generale del partito Zhao Ziyanh esce dal Palazzo del Popolo nel buio di piazza Tienanmen. Gli studenti lo prendono per mano e lo portano all’autobus 5107, dove si sono riparati i 7 del Consiglio di guerra. Zhao stringe le mani, si inchina, chiede un megafono: «Siete tanto giovani, come potete sacrificare la vostra vita in questo modo così triste?». Poi alle 5, prima dell’alba, va all’ospedale, si ferma davanti ai pagliericci dei ragazzi sfiniti dalla fame e dalla sete, posando le due mani sul loro petto. Sembra un’apertura, è il preannuncio del massacro, con la sconfitta di Zhao nel Politbjuro davanti a Deng silenzioso, e la sua cacciata. Da un arsenale arrivano sette razzi che vengono sparati subito dopo il tramonto nella piazza, e per la prima volta la gente vede illuminarsi e rivelarsi nel bagliore di un attimo la Città Proibita, prima che nel buio tornino a fronteggiarsi gli aquiloni dei ragazzi e i dragoni imperiali del potere.

Bisognava capire dalla pioggia, quel giorno, che tutto stava cambiando. Spuntano le mantelline, riempiono la piazza. Ma da stanotte si parla di trecento automezzi militari già pronti alla periferia di Pechino con il ventisettesimo Corpo d’Armata, dopo che il trentottesimo ha rifiutato gli ordini. Voci impazzite raccontano di colonne di camion carichi di soldati, treni militari in corsa verso la capitale. Col taxi si possono facilmente raggiungere gli avamposti, truppe in attesa a due chilometri dalla piazza, circondate dalla folla che invita i soldati a ribellarsi, a risparmiare i ragazzi, mentre qualcuno legge poesie. Gli studenti montano sbarramenti davanti alla piazza, creano cordoni umani, sgonfiano le ruote di 277 autobus messi di traverso. In pigiama e con le coperte sulle spalle, arrivano dagli ospedali i primi Capi della protesta, uno di loro — Yu Er Kai Si — sviene, non vuole andarsene, resta a Tienanmen con l’ossigeno. Per paura che il governo usi l’alibi della loro salute allo stremo, i giovani sospendono lo sciopero della fame e della sete, trasformandolo in un gigantesco sit-in. Scatta la legge marziale, sette aree della città vengono chiuse, manifestazioni e riunioni sono proibite, le antenne delle televisioni straniere si spengono. I soldati sono 150, forse 200mila. «Pensavate che il governo fosse debole e imbelle — dice Li Peng — , ma noi non lo siamo».

In bicicletta, i ragazzi raggiungono gli accampamenti militari, aprono i tendoni dei camion, salgono sui cofani per parlare ai soldati: «Abbiamo la stessa età, magari da bambini abbiamo fatto insieme il gioco dell’elastico, ascoltateci». Seduti sulla balle di fieno, a cavalcioni sulle sedie, i soldati di Deng non rispondono, rimboccano i pantaloni con la fodera rosa, sbottonano la giacca della divisa, chinando il capo senza il cappello. Gli studenti raccontano lo scontro nel Bjuro, la sconfitta di Zhao di cui la gente non sa ancora nulla. In questo assedio sospeso, si parla di una lettera di sette ufficiali inviata al giornale del partito contro il pugno duro, e non pubblicata, di un rifiuto a marciare contro gli studenti firmato da altri 100. Adesso, non si sa perché, i camion dei soldati indietreggiano di quasi un chilometro, la gente applaude. Il paesaggio notturno di Pechino nella legge marziale è impressionante, si può attraversare solo dai cortili e dai vicoli scoprendo all’interno le case illuminate, i bambini sui balconi, i vecchi col bracciale rosso del servizio d’ordine studentesco.

Gorbaciov è tornato a Mosca, scade il visto dei cronisti che lo avevano seguito nel viaggio, per poi riversarsi a Tienanmen. Ci cacciano: rifiutano di prolungare il visto, negano ogni permesso, ci fanno partire subito, non sentono ragioni: «Dovete andarvene». Tutti sono disperati di non poter seguire la fine che si avvicina, qualcuno piange di rabbia. Andiamo a vedere un’ultima volta i soldati, sono le otto di sera, le madri di famiglia scendono dalle scale di casa con un mestolo e la pentola della minestra, la versano nelle gavette. Cosa accadrà? Tutto resta sospeso nel cielo di Pechino dove vola l’aereo che ci riporta a Mosca. Nessuno parla, in coda gli uomini del Kgb dormono in tre, uno beve, due sorvegliano. Prima di andarcene, eravamo passati a salutare i ragazzi a Tienanmen, a scambiare i numeri di telefono, ad abbracciare la ragazza Chai Ling e Ma Shao Feng, che si faceva chiamare il Re delle Scimmie. L’ultima cosa che ho visto, voltandomi, è il gesto di una vecchia che posava davanti al recinto dei 7 ragazzi lo zucchero e il miele, come se tutto stesse finendo e si potesse ricominciare a vivere.

Poi, i carrarmati, e il massacro.

Sorgente: A Tienanmen con gli studenti che portarono la Cina nel futuro | Rep

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