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In politica non esiste un’ultima trincea. Le battaglie non si perdono mai del tutto e per sempre. Una volta superato lo shock per la vittoria di Matteo Salvini e della Lega (un partito che a ogni tornata elettorale ha visto crescere il suo consenso  in progressione geometrica) dobbiamo considerare con la necessaria freddezza il risultato del 26 maggio.

Di acqua nel bicchiere ne è rimasta poca, ma un paio di dita stanno ancora sul fondo; abbastanza per non morire di sete. È un dato positivo il tracollo del M5S. In un anno ha perso sei milioni di voti, dopo essere stato sconfitto in tutte le precedenti consultazioni parziali. A bastonarlo è stato il suo alleato.

Non si illuda Nicola Zingaretti di aver riportato nel suo ‘’campo’’ gli elettori che avevano abbandonato il Pd nel 2018, perché in gran parte sono passati direttamente nei ranghi del Capitano. Per gli avversari di ciò che fu la maggioranza giallo-verde la situazione è ora più chiara: l’agenda politica la detterà Salvini.

Il Capitano ‘’folgorante in soglio’’ non metterà in imbarazzo il Pd sfidandolo sul terreno della demagogia (a partire dalla tentazione di convergere nell’avventura del salario minimo orario). Anzi, la politica annunciata da Salvini durante la campagna elettorale e ribadita a commento del voto costringerà i dem a essere meno schizzinosi nei confronti della Ue e a capire che da Bruxelles può venire un aiuto insperato.

La Commissione Juncker resta legittimamente in carica almeno fino a ottobre e non sembra intenzionata a rinunciare al proprio ruolo. È arrivata la lettera al governo italiano nella quale si chiedono chiarimenti sul mancato rispetto degli impegni assunti in sede di legge di bilancio, soprattutto per quanto riguarda l’incremento dell’incidenza del debito pubblico sul Pil già nell’anno in corso e ancor più nel prossimo.

Sappiamo che è prevista, a questo titolo, una specifica procedura d’infrazione, la cui apertura avrebbe delle conseguenze molto serie sullo spread e sui mercati (già in allarme dopo l’esito delle elezioni). Dall’Europa, dunque, può venire un invito perentorio a tenere in carreggiata le nostre finanze pubbliche.

Salvini replicherà con la consueta arroganza, ma dovrà prendere atto di una realtà diversa da quella che si aspettava. Confidava molto su di un voto europeo che premiasse le forze populiste, sovraniste, xenofobe e quant’altro potesse  emergere ancora dalle peggiori pagine di storia.

E continua a fingere di non sapere che i suoi alleati, proprio perché nazionalisti come lui, si guarderanno bene dal fare sconti all’Italia, sul terreno di scontro scelto dal Capitano. Oggi è ancor più evidente la solitudine del nostro Paese, proprio in conseguenza del successo della Lega.

Una Commissione europea che sia espressione di una maggioranza composta dalle forze tradizionali anche se un po’ malconce (o comunque da partiti filo-europeisti), sarà un problema anche per la linea che il governo italiano dovrà seguire nell’appuntamento con la legge di bilancio 2020.

Se dobbiamo aspettarci, dunque, una politica europea impostata sulla continuità e sulla conferma delle grandi scelte compiute (a partire dall’euro), perché non cominciare subito a mandare segnali in tal senso? In sostanza, sarebbe utile indurre l’esecutivo – ora a trazione leghista – a rassegnarsi all’idea di venire a patti.

In occasione della legge di bilancio 2019 il governo italiano – dopo mesi di bravate e di insulti nei confronti delle istituzioni europee che provocarono inutilmente danni alla stabilità economica del Paese – si era rassegnato a trovare un modus vivendi con la Ue, approfittando con cinismo di una ‘’rendita di posizione’’: l’Italia è troppo importante per  la sopravvivenza dell’Unione e dell’euro.

Ma è vero anche il contrario.

“La posizione del governo è netta e unanime. Non è in discussione alcun proposito di uscire dall’euro. Il governo è determinato a impedire in ogni modo che si materializzino condizioni di mercato che spingano all’uscita. Non è solo che noi non vogliamo uscire: agiremo in modo tale che non si avvicinino condizioni che possano mettere in discussione la nostra presenza nell’euro. Come ministro dell’Economia ho  la responsabilità di garantire, su mandato del governo, che queste condizioni non si verifichino”.

Così parlò Giovanni Tria in un’intervista al Corriere della Sera del 9 giugno 2018, pochi giorni dopo la costituzione del governo giallo-verde, nel quale era stato nominato ministro dell’Economia. Il passaggio-chiave di quella dichiarazione stava nella consapevolezza che per uscire dalla moneta unica non è necessario  che un Paese prenda direttamente l’iniziativa (anche perché non saprebbe quale procedura seguire); è sufficiente adottare politiche e assumere comportamenti tali ‘’da mettere in discussione’’ la presenza nell’euro.

Il rischio-Italia è molto elevato, nel senso che potrebbe verificarsi ciò che Tria voleva evitare: arrivare al punto di guardarsi attorno e trovarsi fuori. Da soli. Ecco perché non c’è tempo da perdere in formalità. Chi ha il potere di agire lo faccia.

 

Sorgente: L’Italia è sola in Ue, anche gli alleati di Salvini non ci faranno sconti | L’HuffPost

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