È comprensibile che la superficialità su quest’argomento dell’ereditiera del più famoso marchio di biscotti stia indignando la Germania. La ventiseienne Verena Bahlsen ha dichiarato alla Bild che il lavoro forzato inflitto dai suoi trisavoli a centinaia di donne provenienti soprattutto dalla Polonia e dall’Ucraina “è successo prima del mio tempo e abbiamo sempre pagato quei lavoratori forzati quanto i tedeschi”. L’azienda, ha concluso la giovane imprenditrice, “non ha nulla da rimproverarsi”. Apriti cielo.
Lo storico di Gottinga Manfred Grieger ha ricordato in un’intervista al Ndr che pur non essendoci documenti specifici sulla fabbrica in Bassa Sassonia della Bahlsen “è chiaro che durante la guerra quei lavoratori rientrassero in una visione razzista della società”. Gli europei dell’est erano considerati dai nazisti razze inferiori, “e così venivano trattati”, anche nelle fabbriche. Un suo collega, Michael Wolffsohn, che insegna storia militare a Monaco, bolla le dichiarazioni della giovane Bahlsen come “insopportabili” e li chiama “confusi discorsi da bar”.
Verena Bahlsen tace. Ma l’azienda ha pensato bene di pubblicare un comunicato in cui ricorda di aver impiegato tra il 1943 e il 1945 circa 200 lavoratrici forzate. E ha sottolineato di essere “consapevole della sofferenza e delle ingiustizie inflitte alle lavoratrici”. Intanto, dal Centro di documentazione sui lavori forzati di Berlino l’hanno invitata a visitare il museo. Non per mangiare biscotti, puntualizzano: per studiare un po’ di storia.
Non è la prima volta che l’ereditiera fa parlare di sé: solo qualche giorno fa aveva scatenato un’altra ondata di critiche. “Ebbene sì, sono capitalista – aveva detto durante una conferenza – Mi appartiene un quarto di Bahlsen. Voglio guadagnare soldi e comprarmi degli yacht”. Nella luterana e frugale Germania, pochi avevano apprezzato la sua sincerità un po’ cafona.