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In piena sindrome da complotto politico giudiziario, Salvini non reagisce da par suo di fronte a un alleato-avversario che lo considera “male assoluto”. E i suoi iniziano a temere che si sia “incastrato”

By Alessandro De Angelis

La notizia è nella reazione del Capitano, di quelle che non ti aspetti da un uomo che finora ha alimentato una narrazione machista di sé, sprezzante verso avversari, alleati, o avversari travestiti da alleati, sempre e comunque: “Per Grillo e Di Maio sono il male assoluto. Non capisco”. E la notizia sono anche le pubbliche parole di “fiducia” nella magistratura, soprattutto perché Salvini pensa esattamente il contrario e cioè che l’arresto del “suo” sindaco di Legnano, sia il più classico esempio di una giustizia a orologeria, che mira a condizionare l’esito del voto, azzoppando il vincitore annunciato.

È la reazione di un leader sotto botta, appannato nella lucidità, che inizia a non essere compreso anche da parecchi dei suoi, perché la contraddizione politica è più forte dello spin, secondo cui “non vuole cadere nelle provocazioni”. E la contraddizione che parecchi alti in grado nella Lega affidano ai microfoni spenti è: “Come si fa a stare al governo con chi ti considera il male assoluto e chiama a un referendum tra sé e la Tangentopoli in cui mette anche noi?”. Alla lunga questa ambiguità, questo tatticismo, questa promessa di un “chiarimento” diventato come la rivoluzione per Giorgio Gaber “oggi no, domani forse, dopo-domani sicuramente”, e rischiano di rivelare una impotenza di fondo, avvalorando proprio l’essenza della strategia pentastellata. Cioè che, in fondo in fondo, lo sfavillante decisionista sia un “Cazzaro verde” (copyright, Marco Travaglio) che, al dunque, non morde e non ha forza e coraggio per mettere in discussione l’assetto esistente. E, anche se poco evangelico nel linguaggio e nello stile, è costretto a porgere l’altra guancia di fronte a un alleato avversario che mette in discussione la sua moralità, come se la Lega fosse un covo di delinquenti in attesa di essere scoperti. Perché la parola Tangentopoli, in definitiva, significa questo. È una questione di fondo che attiene a una cosa che, in politica, viene prima di un contratto: la dignità.

Altro che staccare la spina. La verità è che il leader leghista non ha ancora deciso che fare perché in questa campagna elettorale trasformatasi in un calvario politico-giudiziario, per la prima volta è costretto a giocare nel ruolo e nel contesto che meno si adatta alla sua indole: in difesa, in piena sindrome da assedio. C’è una parola che spiega tutto, tensione, incertezza e paura su quel che potrà succedere di qui al 26 e l’incastro del dopo. La parola “regia”. Perché la perfetta sincronia tra l’offensiva giudiziaria e gli attacchi dell’alleato avversario, per parecchi, non è un caso. Gli uomini più vicini a Salvini sono convinti, in un’analisi che evoca le antiche suggestioni berlusconiane sulle toghe rosse e i comunisti, che i Cinque Stelle abbiano preso il posto della sinistra nel rapporto con la magistratura. Sanno in anticipo quel che succede, suonano la gran cassa con gli opinionisti e i giornali vicini e cavalcano la tigre giustizialista, con lucidità e freddezza. È accaduto sull’inchiesta milanese come su Siri o nell’indagine dalla Dda di Latina con l’ipotesi di scambio di voti e favori tra politici e clan, in un territorio dove la Lega ha iniziato a mietere consensi: “È chiaro – dicono le stesse fonti – che siamo il bersaglio, loro sanno e colpiscono”.

E non è affatto sfuggita, in questa sindrome da complotto, anzi ne è parte integrate, la svolta quirinalizia di Luigi Di Maio che, negli ultimi giorni, ha archiviato il suo spartito anti-europeista sui conti, proponendosi come custode delle regole europee e si sperticato in lodi a Mattarella, con tanto di autocritica sull’impeachment che aveva invocato un anno fa. Questo è il punto. Sarà un caso, ma questa sintonia si è manifestata proprio adesso che, all’ordine del giorno del dibattito politico c’è quel che succederà “dopo” e la politica italiana ruota tutto attorno all’eventualità di una crisi e del possibile ritorno al voto. Sarebbe questo asse, per i complottisti verdi in servizio permanente effettivo, a ricondurre tutto a una inquietante coerenza quel che è successo in questo ultimo mese, segnato dall’effervescenza politica di Di Maio, il cui coraggio nel menare le mani è più forte della paura che si torni al voto, forse perché in cuor suo sa che l’eventualità, sgradita ai custodi delle istituzioni, è remota. In parecchi, dentro la Lega, vedo in questo la traccia per comprendere ciò che accadrà dopo: “Richiamo di rimanere incastrati in un abbraccio letale per cui sarà complicato  sfilarsi perché votare a settembre è difficile, ma rimanendo ci facciamo male”.

Salvini non è Berlusconi che ha sempre utilizzato la “persecuzione giudiziaria” come elemento di mobilitazione di un popolo e il consenso come “scudo” verso le procure. Anzi, è esattamente l’opposto, sensibile al tema giustizialista che lui stesso ha usato sugli avversari come strumento di lotta politica, e questo spiega il cedimento sul caso Siri e la ragione per cui, finora, tra il ritorno al centrodestra tradizionale che pure è maggioranza nel paese e governo con i Cinque stelle, ha sempre scelto questa prospettiva che gli ha dato, in materia, una nuova verginità politica rispetto alla Lega incistata nel berlusconismo. Teme cioè che la questione giudiziaria più che mobilitante sia logorante, perché risucchia la novità della Lega populista e anti-establishment nel gorgo del vecchiume: il centrodestra degli indagati, gli amici dei corrotti, quelli dei 49 milioni… È il terreno perfetto, per il Cinque Stelle, nell’Italia di oggi, resa più severa verso la corruttela dei politici da dieci anni di crisi e vacche magre per la povera gente. Sarà anche furibondo, il Capitano, come raccontano i suoi. E si sarebbe volentieri scagliato contro questo svolazzar di toghe sulla sua campagna elettorale e contro lo sciacallaggio politico del socio di governo, diventato un feroce oppositore. Ma non lo ha fatto, a rischio di apparire già “incastrato”.

Sorgente: Il macho porge l’altra guancia | L’HuffPost

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