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Nel 2011 l’orgoglio di Calderoli per averle ridotte. E la «Padania»: risparmi epocali

di Gian Antonio Stella

Ci mancavano solo quelle! Nel «gallodromo» governativo, dopo gli strilli, la polvere e lo svolazzar di penne tra i galli populisti sulle dimissioni di Siri, il 25 Aprile, i comizi corleonesi, le autonomie regionali, gli striscioni fascisti, i porti chiusi, i soldi per Roma e via così, c’è una new entry: il ritorno delle vecchie Province. Della serie: non c’è niente di più nuovo, nel cambiamento, del dietrofront.

«Per me le Province si tagliano. Punto. Ogni poltronificio per noi deve essere abolito — ha subito twittato Giggino Di Maio —. Efficienza e snellimento: questi devono essere i fari. Questa è la linea del M5S». «Vogliamo dare i servizi ai cittadini. Se i Comuni non riescono a farlo, servono le Province — ha ribattuto al volo Matteo Salvini —. L’abolizione delle Province è una buffonata di Renzi, che ha portato disastri soprattutto nelle scuole e alle strade». Artigliata finale: «I grillini si mettano d’accordo».

Il nodo è, secondo il sottosegretario all’Interno Stefano Candiani, che all’ultima bozza per la riforma degli enti locali leghisti e grillini hanno lavorato insieme: «Stiamo facendo un lavoro importante con il M5s e nello specifico col viceministro all’Economia Laura Castelli…». E via, nuovo scontro. Con le opposizioni che battono. Matteo Renzi, Pd: «Ecco il Governo del Cambiamento: diminuiscono i posti di lavoro, aumentano le poltrone». Anna Maria Bernini, Forza Italia: «L’ultima barzelletta del governo riguarda la resurrezione delle Province». Insomma, «fino a ieri eravamo convinti che a Palazzo Chigi ci fossero due diversi governi, uno della Lega e uno dei 5 Stelle. Oggi ne spunta un terzo, che evidentemente lavora all’insaputa degli altri».

E rispunta il tormentone: il ritorno «non è nel contratto di governo». La stessa identica frase fatta usata a parti rovesciate dal segretario leghista. L’apertura agli spinelli di cannabis suggerita dai grillini? «Non passerà mai. Non c’è nel contratto di governo». L’invito a colmare i «vuoti di tutela costituzionale» sul fine vita come chiesto dalla stessa consulta al Parlamento? «Se ne occuperà la prossima legislatura. Non è nel contratto».

Che il famigerato contratto non parli del ritorno alle Province, «soppresse ma non soppresse» del tutto dopo il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre, è fuori discussione. Tra le 17.964 parole dei reciproci impegni notarili una sola Provincia è nominata. Quella di Treviso, indicata come modello sia dai grillini sia dai leghisti per la gestione dei rifiuti. Fine. Le Province mai. Non una citazione. Anzi, a voler essere pignoli, sono nominati sei volte i porti ma sempre a proposito di «aree retro portuali», «gateway», «transhipment» e cose simili. Mai di chiusura dei porti. Mai di blocchi navali. Sviste…

Come spiegava ieri sul Sole 24 Ore Gianni Trovati, la nuova baruffa non nasce da voci dal sén fuggite. Si tratta di una proposta concreta. Una bozza, su carta intestata della presidenza del Consiglio «perché a scriverla è stato il tavolo tecnico-politico in conferenza Stato-Città istituito dall’ ultimo Milleproroghe», delle «Linee guida per la riforma degli enti locali». Punto primo: «La Provincia ha un presidente, eletto a suffragio universale dai cittadini dei Comuni che compongono il territorio provinciale, coadiuvato da una giunta da esso nominata». Di più: a «coadiuvare» il presidente c’è poi il «Consiglio, avente poteri di indirizzo e controllo, eletto a suffragio universale». Di fatto, un ritorno paro paro al passato.

Fu un errore abolire quell’organo di governo locale ereditato dai Savoia prima ancora che nel 1861 nascesse lo Stato unitario? Anche se la sua abolizione era stata prevista dai padri costituenti come una logica conseguenza (troppi strati, nello Stato) della futura nascita delle Regioni? Anche se via via quelle strutture si erano spesso trasformate in serbatoi clientelari e in barriere burocratiche di interdizione capaci di inceppare a capriccio qualunque opera? Se gli stessi Comuni, specie i più grandi, friggevano di impazienza per certe lentezze? Se la deriva era tale da far salire le province a 107 (8 in Sardegna, con capoluoghi come Lanusei, 5.309 anime) o far nascere una Provincia a tre piazze, quella di Lanciano, Ortona e Vasto? Mah…

«Avremo presto a disposizione — dice Stefano Candiani a nome dei leghisti — anche degli studi e dei numeri che dimostrano, purtroppo, come la riforma Delrio abbia anche fatto lievitare le spese invece di produrre risparmi». «Ma quando mai!», replica Graziano Delrio. E spiega che i problemi sono venuti dalla riforma «monca» per il referendum perduto e che semmai erano state troppo radicali, a causa della crisi, le sforbiciate. «La riforma è stata compromessa dalla finanziaria 2015, con tagli irragionevoli al bilancio delle Province», sostiene Achille Variati, che fino a febbraio ha vissuto da presidente Upi tutta la fase cruciale, «Dal 2017 va un po’ meglio. Ma a fronte dei costi per la manutenzione di oltre 5 mila scuole e 130 mila chilometri di strade i tagli avevano ridotto del 60% la capacità di investimenti. Che i costi siano aumentati, poi!»

Certo è che l’insistenza leghista sul ripristino delle vecchie entità locali ha qualcosa di paradossale. Era stato il Carroccio infatti, d’accordo con Silvio Berlusconi («delle Province non voglio parlare, vanno abolite»), a decidere il primo storico taglio radicale degli organismi di cui oggi invoca la resurrezione: una Provincia su tre, tutte quelle sotto i 300.000 abitanti. Via. Abolite. Era il 14 agosto 2011, Ferragosto. Titolo a tutta pagina della Padania: «Costi della politica, tagli epocali / Difesi risparmi comuni virtuosi». Titolone a pagina 3: «La “Casta” colpita al cuore / Calderoli: tagliate 50.000 poltrone». Il grafico con la mappa dei tagli era già più cauto: «Le 36 Province a rischio»…

Ha ragione il vecchio adagio: per fare nuove promesse, occorre avere buona memoria…

Sorgente: Province, nuova lite Lega-M5S. Se cambiare è un dietrofront: quando anche il Carroccio esaltava i tagli

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