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“Abbiamo avuto due recessioni, qualcuno dice che ce ne sarà un’altra, è possibile”. Ignazio Visco, ieri al confronto in Bocconi con il gotha della finanza e dell’industria, cerca di alzare il tono rispetto alle polemiche spicciole in cui si dibatte la cronaca politica in questi “Anni difficili”, per rifarsi al titolo del suo ultimo libro. La recessione di cui parla il governatore della Banca d’Italia non è quella tecnica in cui è precipitata l’economia italiana, bensì un fenomeno di nuovo tipo.

“Le precedenti recessioni – spiega – erano di natura finanziaria, questa è di natura reale per motivi che sono in parte geopolitici in parte tecnologici”. Un fenomeno epocale che investe anche l’Italia, vulnerabile anche perché, tema della giornata in Bocconi, sconta la fragilità di un mercato finanziario troppo bancocentrico. “Mai che si venga a dire – sostiene nel suo intervento alla presentazione dello studio sui corporate bond dei professor Stefano Caselli promosso da Equita – che il governatore di Bankitalia viene qui a dire che le banche non servono. No, le banche sono fondamentali. Ma il sistema del credito, pur rimanendo una fonte di finanziamento essenziale, non potrà da solo sostenere la crescita degli investimenti, soprattutto quelli necessari per innovare e competere sui mercati internazionali”.

Le cose da fare, insomma, non mancano. Meglio non perder la rotta nonostante i siluri in arrivo dal fronte della maggioranza. Sul fronte dell’indipendenza della banca centrale. “Credo che Bankitalia sia indipendente e autonoma, non vedo nessun attacco all’autonomia”. Poi aggiunge però che “c’è invece una visione a volte incerta sulle responsabilità. C’è chi dice che non ci può essere indipendenza e al tempo stesso irresponsabilità: io sono d’accordo, bisogno dare conto”. E sulla questione della titolarità dell’oro custodito in via Nazionale non c’è materia di discussione perché “la legge c’è già”.

Meglio parlare di come far partire gli investimenti, ingrediente fondamentale per far ripartire l’economia che “si mantiene su un sentiero di crescita stabile se le imprese sono in grado di investire per fare evolvere rapidamente i propri modelli di attività in funzione dei cambiamenti nella domanda, nella tecnologia, nella disponibilità di risorse”. Un sentiero virtuoso che il Bel Paese, ancor prima dell’attuale turbolenza politica, ha smarrito: “Nell’esperienza degli ultimi decenni tale capacità è stata nel complesso limitata”. Il risultato? “Il crollo degli investimenti privati, al quale si è accompagnato quello non meno grave degli investimenti in infrastrutture e altre opere pubbliche, ha reso manifesta la difficoltà del nostro sistema produttivo di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione, dalla straordinaria affermazione di nuove tecnologie, dagli andamenti demografici”. Un gap che è emerso impietoso negli anni della recessione. “Le difficoltà di crescita, poi, sono state esacerbate dalla doppia recessione che ha fatto seguito alla crisi finanziaria globale. Tra il 2007 e il 2013 gli investimenti hanno subito un calo del 30 per cento; sono ancora largamente inferiori al livello pre-crisi”.

Per uscire dalle secche, insomma, c’è una sola ricetta: investire. “A tal fine è fondamentale assicurare che le imprese operino in un contesto macroeconomico favorevole in termini di livello della pressione fiscale, funzionamento del mercato del lavoro, disponibilità di infrastrutture ed efficienza della pubblica amministrazione. Un fattore essenziale per gli investimenti è la disponibilità di risorse finanziarie per le imprese, adeguate in quantità e qualità”.

L’azione del governo va nella direzione giusta? Visco evita, comprensibilmente, di alzare ulteriormente la tensione, ma si concede un riferimento, uno solo, alle scelte dell’Esecutivo: la normativa sull’Ace, l’Aiuto alla crescita economica, ha avuto l’effetto di ridurre lo svantaggio fiscale del capitale di rischio rispetto al debito, incentivando il rafforzamento del patrimonio delle imprese”. Peccato che la norma sia stata abolita dalla Manovra per finanziare la flat tax. E infatti Visco ha sottolineato che “misure a favore del capitale di rischio simili a quelle adottate in Italia costituiscono parte integrante della proposta di direttiva comunitaria sulla tassazione comune delle imprese”, mentre “l’abolizione dell’ACE quest’anno, con la legge di bilancio, rischia di andare in direzione contraria. Una valutazione più puntuale potrà essere effettuata soltanto quando sarà operativo il meccanismo alternativo che collega il beneficio fiscale all’autofinanziamento, all’aumento della capacità produttiva e a quello dell’occupazione”.

C’è comunque un fil rouge che lega i problemi di oggi al vizio storico dell’eccessiva dipendenza delle imprese dalle banche ed al ruolo preponderante del debito rispetto al capitale di rischio”. Già negli anni Venti, ricorda Visco, Piero Sraffa che osservava che in Italia il finanziamento da parte delle banche “rappresenta per l’industria una necessità assoluta”. E Carlo Azeglio Ciampi ricordava nelle Considerazioni finali sul 1984 che “la riluttanza a cercare risorse sul mercato del capitale azionario, dettata dal timore di perdere il controllo proprietario, è stata all’origine di crisi di aziende ancora dotate di buone capacità di produzione e di vendita, ma indebolite nella struttura finanziaria”.

Ma le lacune del sistema italiano sono assai più rilevanti e radicate. È sempre più urgente sviluppare segmenti di finanza non bancaria in grado di fornire risorse nelle forme più adatte, dai business angels alle operazioni di ristrutturazione, dal venture capital all’accesso ai mercati azionari e obbligazionari. “È necessaria – sottolinea il Governatore – una più ampia diffusione, rispetto a quella attualmente assai limitata, dell’attività di banca d’investimento”. Ma a complicare il cammino è la struttura stessa del sistema produttivo: “Alla prevalenza di piccole e medie imprese corrisponde quella dell’intermediazione bancaria, mentre è storicamente limitato il ricorso al mercato dei capitali. Non è questa una configurazione efficiente”. Né emerge dal basso la volontà di dotarsi di strumenti adeguati ad una governance e ad una trasparenza in linea con le sfide internazionali. “È indicativo – commenta – il fatto che a un programma di Borsa Italiana volto a sostenere le aziende nella realizzazione dei loro progetti di crescita e nel miglioramento della loro visibilità presso gli investitori partecipino solo circa 500 imprese italiane”.

Le imprese italiane continuano così a caratterizzarsi per una elevata dipendenza dal credito bancario. Pur essendo diminuita di oltre 7 punti percentuali dalla fine del 2011, l’incidenza dei finanziamenti bancari sul totale dei debiti finanziari sfiora oggi il 60 per cento, il valore più elevato tra i principali paesi dell’area e ancora superiore di oltre 25 e 30 punti a quelli di Stati Uniti e Regno Unito. La quota delle obbligazioni, pur salita al 13 per cento (un valore in linea con la media dell’area 4 5 dell’euro), è ancora inferiore di circa 10 punti rispetto a quella del Regno Unito e di oltre 25 a quella degli Stati Uniti. Anche il grado di sviluppo dei mercati azionari resta insufficiente: alla fine del 2017 la capitalizzazione delle società non finanziarie quotate era pari al 25 per cento del PIL, a fronte del 60 in Germania, di oltre il 70 in Francia e nel Regno Unito e di circa il 125 negli Stati Uniti.

In sintesi, nonostante varie novità (dall’introduzione dei minibond alla nascita dei Pir) in Italia la sostituzione tra credito bancario e altre forme di finanziamento è stata nel complesso contenuta e ha riguardato un numero limitato di imprese. Eppure, ha concluso Visco “un sistema finanziario diversificato consente all’economia di contenere gli effetti di shock avversi. Nei paesi dove la finanza di mercato è più sviluppata la riduzione del credito innescata dalla crisi finanziaria globale è stata più facilmente compensata dal maggior ricorso delle imprese al mercato obbligazionario e a intermediari non bancari e gli effetti negativi sull’economia sono stati superati più rapidamente”.

Sorgente: Visco difende Bankitalia: “Indipendenza non è irresponsabilità”

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