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Il documentario “Lifeboat” di Skye Fitzgerald. Un racconto crudo ora candidato agli Oscar

Dopo neanche quattro giorni in mezzo al mare ci siamo trovati davanti a un dubbio: continuare a filmare o mettere giù la telecamera e aiutare con i soccorsi?». Skye Fitzgerald regista di Lifeboat fresco candidato agli Oscar nella categoria documentari brevi (dura 35 minuti), racconta il dilemma morale che ha caratterizzato tutta la durata delle riprese.

Lifeboatè un racconto crudo e senza orpelli, senza voce narrante se non quella del capitano Jon Castle, con immagini a volte sfuocate, ma con il pregio della testimonianza di prima mano

Girato nel 2016 a bordo di Sea-Watch 2, una delle barche della ONG tedesca Sea-Watch che da anni vanno in soccorso ai migranti che su gommoni di fortuna tentano la traversata del Mediterraneo partendo dalla Libia, Lifeboat è un racconto crudo e senza orpelli, senza voce narrante se non quella del capitano Jon Castle, con immagini a volte sfuocate, ma con il pregio della testimonianza di prima mano. «Queste operazioni di ricerca e salvataggio sono davvero questioni di triage: la posta in gioco è la vita o la morte – racconta il regista -. Lo stress psicologico e fisico a cui è sottoposto l’equipaggio è immane».

Un’opera di sensibilizzazione

Sedicimila migranti morti in mare dal 2014, 200 persone annegate nei primi ventun giorni del 2019 a cui si aggiungono, a oggi, le 47 ancora a bordo della Sea-Watch 3, la nave a cui è stato impedito di attraccare a Lampedusa e che ora è davanti alla Sicilia. Quello che sta facendo il governo italiano è una mostruosità – continua. L’avanzare delle destre in tutta Europa sta rendendo le operazioni di salvataggio sempre più rischiose e difficili: più la Sea-Watch 3 resta in mare, più c’è il rischio di malattie a bordo, di decessi, ma anche di assalti da parte dei pirati del mare. Lifeboat vuole essere anche un’opera di sensibilizzazione, per ricordarsi che queste persone potrebbero essere nostri parenti, amici, vicini di casa. Oppure noi stessi: basta un ciclo di civiltà per ribaltare tutto, tra cento anni i poveri del mondo potremmo essere noi. La gente ha difficoltà a capire come pur conoscendo il rischio altissimo, queste persone sono comunque disposte ad affrontarlo, a imbarcarsi su gommoni così insicuri. Quello da cui scappano non ce lo possiamo neanche immaginare».

Nel documentario una ragazza del Cameron, Nadine, racconta di essere stata rapita e messa in prigione in Libia, dove veniva picchiata ogni giorno. Un’altra, Aisha, della Costa d’Avorio, racconta di stupri, di esseri umani venduti, di rapimenti.

Trilogia umanitaria

Nato e cresciuto in Oregon, quarantotto anni, Fitzgerald sta lavorando a una trilogia di cui Lifeboat rappresenta il secondo capitolo. Il primo, 50 feet from Syria, raccontava delle vittime della guerra siriana. Da americano, dice di riscontrare analogie tra la crisi del Mediterraneo e quello che sta succedendo al confine con il Messico. «I gas lacrimogeni recentemente utilizzati sui bambini sono figli delle stesse politiche. È nostro dovere continuare a lavorare per assicurare che i richiedenti asilo in tutto il mondo siano trattati con dignità e rispetto, e abbiano il diritto fondamentale di sfuggire all’oppressione e alla persecuzione, di cercare una vita più sicura».

Alle parole del ministro Matteo Salvini, che ancora ieri accusava i volontari di Sea-Watch di essere in affari con gli scafisti risponde: «Sono persone che lasciano temporaneamente il lavoro e la famiglia e rischiano la vita. Sono quelli che quando hanno visto bambini che affogavano al largo delle coste della Libia, invece di girarsi i pollici, hanno acquistato una nave da ricerca, l’hanno portata al largo delle coste dell’Africa e hanno iniziato a trascinare corpi fuori dal mare. So benissimo che l’immigrazione è un tema complesso che andrebbe affrontato a livello globale, con il coinvolgimento di tutti i Paesi europei e mondiali, perché tocca tutti, ma quello che ho documentato in Lifeboat dimostra come ci sia spazio per intervenire anche da parte dei singoli, come tutti noi nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa».

Non a caso la dedica finale è per il capitano Jon Castle, già veterano di Greenpeace, comandante della Sea-Watch 2, morto di cancro nel 2018. E per quando riguarda il dilemma morale tra continuare le riprese e aiutare i soccorsi, Fitzgerald non ha dubbi: «Abbiamo sempre deciso di posare le telecamere e dare una mano. Fare altrimenti non sarebbe stato giusto. Nessuna vita vale più di una ripresa ben fatta».

Sorgente: Voci dal mare – La Stampa

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