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Gianni Sartori

 

Il 2018 si era concluso con ulteriori inasprimenti repressivi per i popoli oppressi curdo e palestinese. In particolare nei confronti dei prigionieri. E nel 2019 – stando ai primi segnali – la tendenza sembra doversi confermare e rafforzare.

Ma – contemporaneamente – anche la Resistenza di chi – come appunto i curdi e i palestinesi – non ha mai accettato di rassegnarsi, di lasciarsi ingabbiare dagli Stati che li vorrebbero reprimere, addomesticare…al limite sterminare.

 

Qualche episodio significativo a sostegno di tali affermazioni.

 

Il 2 gennaio Gilad Ardenne – ministro della sicurezza interna israeliana – ha annunciato di voler adottare nuove misure – a carattere punitivo – nei confronti dei prigionieri palestinesi. Tra queste: abolizione della separazione dei prigionieri in base all’organizzazione di appartenenza, soppressione dei depositi in denaro, ulteriore razionamento dell’acqua e ulteriori limitazioni per radio e  televisione, impedimento – di fatto – alla preparazione dei pasti da parte dei detenuti stessi, drastica riduzione delle visite dei familiari.

A subire queste inutili e crudeli sanzioni sono al momento circa seimila prigionieri, suddivisi in 22 carceri. Tra di loro, anche 250 bambini, otto deputati del Consiglio legislativo, 27 giornalisti.

 

Misure – quelle annunciate da Gilad Ardenne – in sintonia con quanto avviene all’esterno.

Pochi giorni prima, il 27 dicembre, l’esercito israeliano aveva ucciso Karm Fayyad (26 anni) nel corso di una manifestazione a ridosso della barriera di sicurezza che imprigiona gli abitanti di Gaza. Alle diverse manifestazioni di quel giorno partecipavano circa 5mila persone. Nelle stesse circostanze altri otto palestinesi sono rimasti feriti. Dal 24 marzo 2018 – inizio della “Marcia del ritorno” – sono oltre 240 i palestinesi uccisi dai soldati israeliani durante tali iniziative di protesta.

Arriva invece a 312 (310 da pallottole, 2 per aver inalato gas lacrimogeni – di tipo CS, si presume) il totale complessivo delle vittime palestinesi della repressione nel 2018.

La cifra (quattro volte superiore a quella del 2017 quando le vittime palestinesi furono una settantina) è stata fornita dal rapporto annuale del Raduno nazionale delle famiglie delle Vittime. Tra di loro, donne e bambini (57 minorenni). La vittima più giovane – di soli otto mesi – si chiamava Laila al-Ghandour.

 

In particolare, ben 217 sono stati uccisi in diversi punti della Striscia di Gaza.

Israele detiene ancora – praticamente un sequestro – 28 salme di palestinesi uccisi nel 2018, così come quelle di altre 38 vittime risalenti al 2015. In totale ne detiene 284, alcune addirittura dal 1965.

 

Pugno di ferro anche per i reati d’opinione. Nel luglio dell’anno scorso veniva arrestata Lama Khater, giornalista palestinese. Arbitrariamente accusata di “incitamento all’odio” questa donna, madre di cinque figli, venne sottoposta a lunghi, estenuanti interrogatori.

Alla fine di dicembre, un tribunale israeliano ha rinviato il suo processo al 30 gennaio 2019.

 

Particolarmente drammatico (e anche surreale in quanto detenuta dall’Autorità Palestinese) il caso di Suha Jabar. Madre di tre figli – dopo essere stata prelevata nella sua casa in Ramallah – venne incarcerata a Gerico senza imputazioni (per le forze di sicurezza dell’ANP potrebbe aver fornito aiuto e assistenza ai familiari dei prigionieri politici e ai manifestanti anti-occupazione). Stando alle dichiarazioni dei suoi familiari la donna avrebbe subito maltrattamenti, percosse e torture.

 

Il 17 dicembre, a causa dell’evidente peggioramento del suo stato di salute, era stata ricoverata in ospedale a Hebron. Ma poi, alla fine di dicembre – al 54° giorno di sciopero della fame – si era vista rifiutare nuovamente la scarcerazione.

 

 

 

Risale invece al 2 gennaio la notizia che Samidoun (rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi) ha indetto una settimana internazionale di lotta (dal 15 al 22 gennaio 2019) per la liberazione di Ahmad Sa’dat, segretario del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) condannato a 30 anni e in prigione ormai da 17 (dal 2002 al 2006 a Gerico, in un carcere dell’Autorità Palestinese, poi – dopo un assalto dell’esercito e relativa consegna – in quelle israeliane).

ANCHE I PRIGIONIERI MAOISTI TURCHI ADERISCONO ALLO SCIOPERO DELLA FAME CONTRO L’ISOLAMENTO PER OCALAN

 

 

In Turchia intanto proseguono gli scioperi della fame di numerosi prigionieri curdi.

Sia per la fine dell’isolamento di Ocalan, sia in solidarietà con la deputata di HDP e copresidente del DTK (Congresso della società democratica) Leyla Guven. Rinchiusa nel carcere di Diyarbakir e in sciopero della fame dal giorno 8 novembre 2018.

 

 

A questa lotta il 25 dicembre 2018 si erano uniti – per uno sciopero di qualche giorno, a staffetta – alcuni militanti del MKP (Maoist Komunist Partisi) detenuti nella prigione di Siliviri.

Successivamente – dal 3 gennaio 2019 – entravano in sciopero della fame per le stesse motivazioni anche molti prigionieri militanti del MLKP (Marksist-Leninist Komunist Partisi).

 

Ovviamente per i prigionieri in sciopero della fame la repressione si indurisce.

Alla fine di dicembre, alla co-presidente del DBP (Partito democratico delle Regioni) Sebahat Tuncel – militante femminista e socialista – incarcerata dal novembre 2016 nel carcere di tipo F di Kocaeli, è stata inflitta una sanzione disciplinare di dieci mesi solo per aver partecipato allo sciopero della fame avviato il 7 novembre da Leyla Guven. Con tale iniziativa, ricordo, si intendeva riportare all’attenzione dell’opinione pubblica la pesante situazione carceraria in cui versa – ormai da 20 anni – il “Mandela curdo” Ocalan. E in particolare l’isolamento assoluto che subisce dal 2016.

 

Quanto al duro regime disciplinare adottato per punire Sebahat Tuncel (isolamento, proibizione di qualsiasi contatto con l’esterno e di ogni attività all’interno della prigione), basti ricordare che dai detenuti viene chiamato “sepoltura”.

 

Repressione sempre pronta a colpire anche nei territori curdi sotto amministrazione iraniana. Della “guerra sporca” a bassa intensità che si svolge in Rojilat ho già parlato altre volte.

Si parva licet (tutto è relativo, ovviamente) vorrei ricordare che agli inizi di dicembre 2018 quattro sindacalisti curdi (Shahou Sadeghi, Aram Mohammadi, Mehrdad Sabouri e Omid Ahmadi) sono stati rinchiusi nel carcere di Kamyaran.

Erano stati arrestati ancora nel 2016 per aver partecipato alle manifestazioni indette per la ricorrenza del 1° maggio. Successivamente rimessi in libertà su cauzione, nell’ottobre del 2016 venivano processati, accusati di “propaganda contro il regime”  e condannati a quattro anni e sei mesi di detenzione.

La pena veniva poi ridotta in appello, nel 2018.

 

Naturalmente anche la vecchia Europa vuol dare il suo contributo.

La notizia è del 1 gennaio 2019. L’internazionalista londinese Ozkan Ozdil è stato arrestato all’aeroporto di Luton con l’accusa di essersi integrato nelle YPG (Unità di protezione del popolo) per combattere contro l’Isis insieme ai curdi. Per il momento è tornato in libertà (provvisoria) sotto cauzione, ma ovviamente dovrà rispondere del suo operato davanti al tribunale. Così impara!

 

Gianni Sartori

 

 

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