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Non ne sono sicuro. Diversamente da quanto dichiarato lunedì scorso da Emmanuel Macron nel suo messaggio di auguri ai francesi, non è affatto detto che “il capitalismo ultraliberista e finanziario, spesso guidato dall’avidità e dalla mancanza di lungimiranza di qualcuno, si sta avvicinando alla fine”.

Non è certo che sia così, anche perché difficilmente ci sarà un’improvvisa marcia indietro sulla libertà di circolazione del denaro che permette alle grandi aziende di ignorare le leggi nazionali. Oggi un governo può aumentare le tasse su un’attività per orientare l’investimento verso altri settori, prevedere misure di protezione a favore dei lavoratori per contrastare un’evoluzione del mercato del lavoro che li danneggi o vietare l’impiego di pratiche industriali pericolose per l’ambiente, ma non appena una decisione va contro i suoi interessi immediati, il capitale può spostarsi altrove.

Le cose non vanno in automatico – perché una sola legge non definisce l’intera politica d’investimenti di un paese – ma resta il fatto che tra un capitale libero di spostarsi dove vuole e il governo di uno stato che vuole conservare i posti di lavoro, il rapporto di forze è ormai chiaramente a favore del primo.

Rispetto ai primi quarant’anni del dopoguerra, si tratta di un cambiamento fondamentale. Grazie al pieno impiego degli anni della ricostruzione e alla paura alimentata dal comunismo, in passato il rapporto di forze era favorevole ai lavoratori. È stata una parentesi eccezionale, ma ora che siamo tornati alla norma, il capitale ha riconquistato il suo regno ed esercita un potere incontrastato rimodellando gli scacchieri politici.

I grandi partiti che hanno plasmato le democrazie occidentali per oltre un secolo – socialdemocratici e democratici-cristiani in Europa, democratico e repubblicano negli Stati Uniti – ne escono chiaramente indeboliti. Gli elettori voltano le spalle ai partiti tradizionali o li rimodellano radicalmente favorendone nuove incarnazioni. Le formazioni tradizionali sono in via d’estinzione perché non hanno più i mezzi per mediare tra gli interessi dei lavoratori e quelli del capitale, dunque non possono più avere un ruolo importante nella società. Per quanto in modo maldestro, Lionel Jospin aveva correttamente sottolineato questa evoluzione dicendo agli operai in sciopero che “lo stato non può tutto”, una constatazione che ha segnato la fine della sua vita politica.

Questo cambiamento radicale mette in discussione l’idea stessa di democrazia ed è il motivo dell’ascesa della nuova estrema destra, che conquista il potere in un numero sempre maggiore di paesi. Il capitale sta diventando un elemento destabilizzante. Questo significa che ci stiamo avvicinando a una guerra di classe e successivamente a una guerra tout court?

La risposta è no, ma a una condizione. Gli europei hanno ancora la possibilità di riequilibrare il rapporto di forze tra il capitale e i lavoratori, ma soltanto affermando una potenza pubblica continentale. Il giorno in cui un governo comune rappresenterà un mercato di 500 milioni di persone con un potere d’acquisto notevole come lo è il nostro, il capitale non potrà più farsi beffe delle nostre leggi, ma dovrà tenerne conto, negoziare e adattarsi. Soltanto allora il capitale potrà constatare che le società in cui si fanno dei compromessi sono infinitamente più prospere e favorevoli ai guadagni rispetto alle società dei fatti compiuti. Quel giorno, l’Europa politica tornerà a essere un modello per altri continenti, e la sua stabilità favorirà quella del mondo intero.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Sorgente: Il cambiamento epocale che l’Europa dovrà affrontare – Bernard Guetta – Internazionale

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