Al Sorani ha cambiato già sette rifugi con la sua famiglia e racconta la disperazione nel Sud: “Gli anziani non escono dalle tende per paura”
TEL AVIV — A Rafah la speranza dura meno di un ghiacciolo. «Venerdì scorso sono stato ottimista per due minuti», racconta al telefono Akram al Sorani, scrittore 38 enne di Gaza City che da metà ottobre vaga con la famiglia nella Striscia, di tenda in tenda, di strada in strada, in quella che definisce «una nakba perenne». Venerdì pomeriggio al Sorani per due minuti ha pensato che l’ordine della Corte internazionale di giustizia rivolto a Israele di fermare immediatamente le operazioni militari a Rafah che arrecano danno ai civili potesse cambiare le cose. E invece.
«E invece neanche il tempo di esultare che ci sono stati nuovi bombardamenti, sia qui a Rafah che nel campo di Jabalia, a Nord. Anzi, dopo il verdetto dell’Aia le esplosioni si sono intensificate. È stato appena colpito un rifugio nella parte occidentale di Rafah, due bambini di 3 e 5 anni sono morti».
Al Sorani è stato uno dei primi palestinesi della Striscia di Gaza a lasciare casa e a spingersi verso Sud, allontanandosi dalla città cuore operativo di Hamas. «Era il 13 ottobre, pensavamo che saremmo stati fuori al massimo qualche settimana…». Sono passati più di sette mesi e sette evacuazioni: da Gaza City a Deir al Balah, da Deir al Balah a Khan Yunis. «Sono a Rafah con mia moglie, mio figlio Khaled di 15 anni e mia figlia Carmen di 11. Mia madre è in un altro posto, i miei fratelli chissà dove, dovrei clonarmi in tre per stare vicino a tutti. Come stiamo? Bisogna inventare un nuovo vocabolario per descriverlo».
In passato ha scritto tre libri e articoli per i giornali, tuttavia nei primi ottanta giorni di guerra la sua penna si era essiccata. «Davanti al foglio non riuscivo a formulare alcuna frase sensata. Allora ho cominciato a tenere un diario online». Al Sorani riporta su facebook, con dovizia di dettaglio, quel che le cronache militari spesso dimenticano: la quotidianità disperata di un popolo che non ha dove andare.
«Sopravviviamo in tende quattro metri per quattro. Abbiamo paura a uscire dal nostro quadrato di stoffa perché temiamo di essere bersagliati dall’alto. Parlo di tende, ma la realtà è che dormiamo per strada. Non avete idea cosa significhi in queste condizioni dover fare i propri bisogni: quando va bene davanti ai pochi bagni ci sono file di ottanta-cento persone, vi lascio immaginare l’igiene. Quindi facciamo ciò che dobbiamo fare nel mare. E ci laviamo con l’acqua salata, che non pulisce e consuma la pelle. Pensare che mi piaceva tuffarmi in mare… A volte non mangio per evitare di dover usare il bagno. Guardo mia moglie, il suo sguardo imbarazzato quando ha il ciclo. E guardo i vecchi con la diarrea che preferiscono farsela addosso piuttosto che uscire dalle tende. Perché il mondo non ferma Israele? Nel 1948 non c’erano televisioni a documentare la prima nakba palestinese, ora invece il nostro dolore è in diretta 24 ore su 24, tutti sanno».
Al Sorani, come gli altri circa 700 mila sfollati a Rafah, ha visto i traccianti di fumo degli otto razzi sparati da Hamas su Tel Aviv. Che tipo di messaggio sia non lo sa e nemmeno gli interessa. «Non ho bisogno di guardare la tv per sapere le ultime notizie, siamo noi la notizia». Se avesse abbastanza denaro, pagherebbe le agenzie che fanno attraversare il confine con l’Egitto e porterebbe la famiglia fuori dalla Striscia. «Sono consapevole, però, che non ci salveremo individualmente, ma insieme. Non so perché non abbiamo accettato lo Stato palestinese nel 1948, ma perché adesso dobbiamo vivere questo sacrificio? Il mondo ci aiuti, stiamo morendo».
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