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Sembra ormai un riflesso condizionato del governo: a ogni problema di ordine sociale si risponde con un decreto che inasprisce le pene. Poco importa che non vi è nessuna evidenza empirica dell’efficacia di pene maggiorate e che quelle che esistono già spesso non vengono applicate, vuoi per trascuratezza, vuoi per mancanza di personale e strutture adeguate. Inasprire le pene solletica i comprensibili desideri di vendetta delle vittime e concentra l’attenzione sui violenti e il loro intorno sociale, distogliendola dalle responsabilità di chi ha lasciato che si producessero contesti in cui mancano le condizioni minime perché si possa crescere e vivere in sicurezza e fiducia e dove l’umanità è quotidianamente offesa. Responsabilità in primis delle istituzioni in cui si articola lo Stato: polizia certo, ma anche enti locali, scuola (incluso il ministero che la governa e distribuisce i finanziamenti), sanità, politiche edilizie, di assistenza sociale e così via. «Non abbiamo bisogno di più polizia, ma di normalità» ha dichiarato un preside delle scuole di Caivano, specificando che intendeva anche riscaldamento e messa in sicurezza della scuola, la mensa, strisce pedonali davanti a essa, vigili urbani: cose che non appartengono alla normalità di chi vive e va a scuola in quel luogo. “Dateci gli insegnanti più bravi”, e la possibilità di avere un tempo-scuola lungo e ricco di attività, ha chiesto un’altra preside, la professoressa Carfora, che intanto va a riprendersi i ragazzi che abbandonano la scuola, senza chiedere che vengano puniti duramente i genitori. Perché sa che con i genitori occorre parlare, convincerli, con i fatti e non solo con le parole, che vale la pena di investire nei loro figli, che il loro destino non è inesorabilmente segnato, che si può avere fiducia. Metterli in carcere non farà che peggiorare la situazione dei loro figli. Non mandare i figli a scuola è certamente un indizio di scarsa attenzione, cura e responsabilità da parte dei genitori, le cui ragioni vanno indagate e possibilmente risolte, anche tramite forme di accompagnamento. La revoca della potestà genitoriale, auspicata da Meloni insieme al carcere, è una misura molto grave, da maneggiare con cautela. Stupisce che un governo che include persone e partiti che in altri tempi e contesti denunciavano l’affido familiare come negazione del diritto naturale dei genitori ad avere i propri figli con sé, a prescindere, oggi agiti con leggerezza questa minaccia. “Dateci più maestri di strada e più comunità educative”, chiedono coloro che ogni giorno lavorano nei contesti difficili.

“Dateci lavoro”, chiedevano le mamme di Caivano che la presidente del Consiglio non ha voluto incontrare, neppure quella che aveva denunciato lo stupro della sua bambina. Come non aveva voluto incontrare i sopravvissuti di Cutro, quasi non fossero loro le vittime, coloro la cui esperienza e ragioni andavano ascoltate. Un rifiuto di incontro che ha rafforzato l’immagine di Caivano e dei suoi abitanti come tutti indegni e bisognosi di essere “bonificati”, invece di incominciare a correggerla proprio da lì, dalla restituzione almeno sul piano simbolico della loro dignità e status di cittadini, con una propria voce ed esperienza significativa, anche se parziale, dura, scomoda. Un rifiuto che risalta ancora di più a fronte dell’incontro con la mamma del giovane musicista ucciso per una stupida lite da un giovanissimo coetaneo a Napoli. Forse perché questa mamma appare più “rispettabile” e chiede, nel suo strazio, pene esemplari?

Certo che ci vuole anche più controllo del territorio e che chi è violento va contenuto e messo di fronte alle sue responsabilità, anche se minorenne. Ma, come hanno osservato diversi giuristi e operatori sul campo, a partire dalla Garante per l’infanzia, quando si tratta di minorenni occorre muoversi con intelligenza e cautela, avendo in mente che il fine ultimo sia, insieme all’attenzione alla vittima, il recupero del minorenne colpevole. Rendere più facile la carcerazione dei minorenni non serve. Serve piuttosto approntare, non solo sulla carta, strumenti di sostegno e affiancamento alla famiglia e alla scuola, che ne rafforzino, o compensino, l’azione educativa. Soprattutto, situazioni complesse come quelle dei contesti sociali degradati non possono essere risolte con blitz della polizia e l’intervento dell’esercito (con buona pace del presidente De Luca). La notizia che il ministro Valditara ha deciso di mandare più insegnanti a Caivano, così come la decisione di aprire un nuovo bando per gli asili nido, sono positive, anche se, invece di ricorrere a un bando, sarebbe più opportuno individuare con precisione le aree dove il bisogno è più urgente. Ma non si dovrebbe aspettare che una situazione esploda, o semplicemente diventi visibile sui media, per intervenire nelle aree a forte presenza di criminalità, disagio minorile e povertà educativa. Occorre prevenirne la formazione e intervenire tempestivamente ai primi segnali, con una dotazione di servizi educativi, sociali, culturali, di tempo libero, che coinvolga le comunità nel loro insieme, non solo come destinatarie passive, tanto meno come soggetti da bonificare, ma come soggetti attivi, di cui valorizzare le capacità e sostenere quella che Appaduray ha chiamato la “capacità di aspirare”.

 

 

(CHIARA SARACENO – lastampa.it)

Sorgente: La cura sbagliata della repressione – infosannio – notizie online

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