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Alessandro Robecchi

Uno speciale caso di strabismo, fa in modo che ci sia una parte della società poco indagata, poco vista, poco raccontata, insomma di cui non ci si occupa, e sono quelli che fanno la guerra tutti i giorni coi prezzi, la spesa, l’affitto, e i salari da fame. E’ un fenomeno italiano piuttosto noto, quello dei lavoratori poveri, da poco certificato dalla Fondazione Di Vittorio: cinque milioni di italiani guadagnano meno di diecimila euro lordi all’anno. Il limite, insomma, a un passo dalle sabbie mobili e della soglia di povertà. E’ una popolazione che non ha narrazione, che non si vede nei telegiornali, nelle serie, non è presente nella politica. Quando si parla di poveri, in generale, è per fargli il culo, perché non corrono a lavare i piatti al mare in agosto, o perché sono assistiti, o svogliati, o fancazzisti che ai miei tempi, signora mia… Ecco.

Tutto il racconto del proletariato italiano sta qui, dileggio e insulto, per non dire dell’equiparazione ormai diretta tra percettore del reddito di cittadinanza e “furbetto”, un’equazione accettata dai media con soddisfatta nonchalanche, e passiamo ad altro. In generale si sentono grandi allarmi, ma non ci si muove molto. Le file, per usare una metafora nemmeno tanto metaforica, si allungano.

Non pare che nella manovra finanziaria, ci siano molte tracce di attenzione per questa numerosa genìa dannata, ma in compenso qualche briciola per chi sta meglio. Se la revisione dell’Irpef sarà quella annunciata – quella del famoso “tagliamo le tasse” che tutti sbandierano – non c’è molto da brindare: si limerà qualcosa tra i 28 e i 55 mila euro, cioè chi guadagna ventottomila euro l’anno niente, e chi si avvicina ai cinquanta risparmierà meno di 500 euro all’anno. Poco, ma soprattutto sempre lì, ai piani medio-alti dei contribuenti.

Dunque, abbiamo un problema: periodicamente si puntella un po’ la classe media, diciamo la borghesia produttiva, il lavoro garantito, e dall’altra si dimentica sistematicamente il lavoro che più si è espanso negli ultimi decennio, quello intermittente, a chiamata, casuale, a singhiozzo, insomma una massa indistinta e molto numerosa di lavoratori che di garanzie ne hanno pochissime o niente del tutto. Non è un settore in cui possa intervenire la politica fiscale, giusta obiezione, perché la platea dei lavoratori poveri non è quasi soggetta a tassazione. Ma proprio per questo la faccenda è un po’ più impegnativa: non si tratta di regalare soldi, ma di disegnare bene dei diritti, e forse proprio per questo la politica se ne sta alla larga.

La vera polarizzazione, qui e ora, è quella tra redditi accettabili e redditi troppo bassi, con buona pace delle vecchie terminologie novecentesche, e però, uh, che sorpresa: riecco la borghesia e riecco il proletariato. Non so dove possa portare questa annosa faccenda dal punto di vista politico, ma insomma, le differenze sociali troppo marcate si sa che generano insoddisfazione e incazzatura. Dunque lì, lì ai piani bassi, serve più che altro un ridisegno complessivo delle modalità di lavoro e di salario, un certificato statale che chi lavora – almeno chi lavora! – non sia povero, il che tra l’altro ripristinerebbe non solo un minimo di giustizia sociale, ma distenderebbe i nervi i tutti. Forze politiche che prendano sul serio questa battaglia e la portino al centro della scena non ce ne sono, non conviene, non fa fine, forse non sono considerati voti appetibili, non fanno opinione, non sono moderati, non hanno sotto il braccio l’agenda Draghi, quindi non vanno bene.

Sorgente: Alessandro Robecchi, il sito ufficiale » Rivoluzione. Chi lavora non può essere povero: lo Stato intervenga

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