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Il dibattito e le prospettive della direttiva Ue. Obiettivo: garantire redditi più equi attraverso la contrattazione collettiva o una soglia minima legale

Con i rincari sul riscaldamento che colpiscono tutto il continente, l’Europa si prepara ad affrontare un inverno più freddo del solito. Da inizio autunno, in Italia come in altri Stati membri, si fa più affollato il bacino della classe lavoratrice che non potrà permettersi di tenere il termostato acceso. Quasi tre milioni, conferma un’analisi dei dati europei per la Confederazione europea dei sindacati (Ces). Numeri che scoperchiano l’abisso della povertà lavorativa europea e riaccendono il dibattito sulla proposta di una direttiva comunitaria per salari minimi adeguati nell’Ue.

 

“La verità è che per troppe persone il lavoro non è più remunerativo”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo scorso settembre. Per questo la direttiva, proposta il 28 ottobre 2020, ha come finalità quella di garantire a lavoratori e lavoratrici di tutti gli Stati membri salari più equi attraverso la contrattazione collettiva nazionale o il salario minimo legale, ha spiegato von der Leyen.

Nell’Unione europea sono 21 su 27 i paesi in cui esiste un salario minimo legale a livello nazionale; i restanti (Italia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Cipro e Austria) lasciano invece la definizione dei salari nelle mani della contrattazione collettiva, anche se con modalità e livelli di copertura differenti.

Un’applicazione modulare, in nome della tradizione
Questa disomogeneità nelle modalità di formazione salariale sul territorio europeo affonda le sue radici nella tradizione nazionale: “Dipende molto dalla forza che le organizzazioni sindacali hanno avuto nella storia del Paese; in linea di massima, dove esse sono, per tradizione, molto rappresentative, forti e strutturate, la fissazione salariale avviene per via contrattuale invece che per via legale”, spiega Salvatore Marra, responsabile dell’area delle politiche europee e internazionali Cgil. “Al contrario, in paesi dove il tasso di rappresentanza sindacale è basso, la necessità di definire un minimo salariale è strutturale, anche a fronte dell’alta percentuale di forza lavoro che rimarrebbe scoperta senza un sistema di contrattazione collettiva nazionale forte”.

Proprio in rapporto alla tradizionale struttura del mercato del lavoro in paesi senza salario minimo legale, Danimarca e Svezia hanno chiesto l’opt-out dalla direttiva, preoccupate che certi aspetti della proposta possano interferire con il modello nordico di contrattazione. “Sono paesi in cui il tasso di sindacalizzazione è del 90% e dove il contratto collettivo si applica, per l’appunto, laddove c’è l’iscrizione al sindacato”, spiega Marra: “È una questione anche culturale: i sistemi di contrattazione collettiva di questi paesi si autoregolamentano. Non esiste alcun tipo di interferenza delle istituzioni nel processo di dialogo sociale, che rimangono totalmente autonomi e si oppongono a qualsiasi intervento legislativo sia a livello nazionale sia a livello europeo”. Per questo i paesi nordici sono preoccupati che le disposizioni della direttiva si sovrappongano a un modello già consolidato di definizione dei contratti che, ad oggi, garantisce salari fra i più alti d’Europa. Il timore è anche quello di spianare la strada a un indebolimento del ruolo delle parti sociali e del sindacato.

In risposta ai dubbi del blocco settentrionale, la Commissione ha chiarito che, proprio in presenza di asimmetrie non trascurabili, la direttiva propone una diversa applicazione tra Stati membri sulla base dei rispettivi sistemi di definizione salariale. Se da una parte i 21 Stati membri con salario minimo legale dovranno dimostrare di aderire a precisi parametri per l’aggiornamento e la definizione delle soglie di adeguatezza salariale, non si impone di istituire un salario minimo legale in quei 6 paesi già regolamentati dalla contrattazione collettiva. Anche le modalità di fissazione degli standard di retribuzione e la loro soglia minima rimangono esclusiva competenza degli Stati membri e delle loro parti sociali.

Al di là della necessità di modulare la direttiva nel rispetto dei diversi modelli, il potenziamento della contrattazione collettiva rimane un principio cardine per la Commissione: a tutti gli Stati membri è richiesto un rapporto annuale da affiancare a un piano di rafforzamento del potere di contrattazione salariale. D’altronde non è un caso se nella direttiva si guarda alla contrattazione collettiva come alla principale porta d’accesso verso retribuzioni più eque in tutta Europa: comparato alla retribuzione minima legale, il modello di fissazione salariale attraverso contratti collettivi sembra in effetti condurre a standard più alti in termini di salari minimi. A questo scopo, sarebbero tenuti a presentare un piano d’azione volto a rafforzare i sistemi di contrattazione collettiva quei paesi in cui il tasso di copertura della stessa dovesse scendere al di sotto del 70%. Attualmente, questo aspetto della direttiva interesserebbe 18 dei 27 Stati membri.

Tornaconti economici e sociali
Secondo alcuni dei maggiori economisti europei, una riforma che incentivi un aumento omogeneo dei salari porterebbe vantaggi sociali ed economici su tutto il continente: “Più soldi nelle tasche dei lavoratori a basso reddito vuol dire maggiori consumi e investimenti; così aumenta la domanda e con essa la crescita economica, la produttività e, infine, anche i posti di lavoro”, scrivono in una lettera più di quindici economisti, inclusi Thomas Piketty e Mariana Mazzucato. “C’è anche un beneficio per il bilancio pubblico: l’aumento nella retribuzione salariale media porta a una minore spesa statale in termini di crediti fiscali e indennità lavorative necessari a controbilanciare l’inadeguatezza dei salari. Persino le entrate statali raccolte tramite tasse e contributi alla pensione ne beneficerebbero”. Si parla perciò di una ripresa economica guidata, anche, dalle politiche salariali, in netta contrapposizione alle scelte neoliberiste di congelamento e abbassamento salariale che guidarono i piani di ripresa europei dopo la crisi del 2008.

Anche Nicolas Schmit, politico lussemburghese e commissario europeo per l’occupazione, gli affari sociali e l’integrazione, ritiene la direttiva fondamentale per combattere le disparità salariali su tutto il territorio europeo: “Alzare gli standard salariali potrebbe portare a una convergenza economica e sociale verso l’alto”, spiega in una intervista al Guardian. In un’Europa che “gioca” al ribasso sul costo del lavoro, una direttiva-quadro sui salari minimi sradicherebbe le principali cause del dumping sociale, delle delocalizzazioni e del brain-drain dai paesi a basso reddito. Per di più, maggiore contrattazione collettiva e degli standard di retribuzione omogenei offrono sollievo anche alle disparità salariali di genere.

In Italia ci sono circa 900 contratti collettivi nazionali depositati al Cnel, di cui soltanto meno di un terzo sono firmati da Cgil, Cisl e Uil”, precisa Marra. Una legge sulla rappresentanza potrebbe mettere fine alla giungla contrattuale: “La direttiva europea potrebbe fare da traino per intervenire sull’insieme di regole che governano la contrattazione collettiva nazionale e risolvere problemi come, appunto, quelli legati ai sindacati gialli e ai contratti pirata”. E aggiunge: “Il rafforzamento della contrattazione collettiva ha storicamente determinato condizioni di lavoro migliori per tutti e ridotto drasticamente le discriminazioni”.

Sorgente: Salari minimi, l’Europa ci prova – Collettiva

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